Questo intervento, che critica quello delle allieve della #Normale alla cerimonia di consegna dei diplomi, mi sembra molto debole, sia nello stile argomentativo, sia nelle posizioni che sostiene. Provo a fare alcune critiche.
Gran parte del pezzo ruota intorno al fatto che le studentesse non avrebbero dovuto dire quello che hanno detto, nell'ordine:
– perché non in grado (paragonandole a persone che mettono benzina all'auto e pretendono di parlare di compagnie petrolifere);
– perché “quattro o cinque anni di frequenza universitaria come studentesse e studenti non bastano, di per sé, a mettere queste studentesse e studenti nella condizione di dire cose particolarmente profonde o interessanti sull’università” (neanche fossero delle adolescenti);
– perché troppo giovani («The nearer you are to being born, the worse you are», ah però 🙄);
– perché “se uno accetta di giocare a un gioco poi non deve lamentarsi quando si accorge che quel gioco ha regole difficili da rispettare” (sotto un’illustrazione grafica del concetto);
– perché, siccome l’università italiana ha tanti problemi che non si possono riassumere in 15 minuti, “sarebbe stato meglio non affrontarli affatto, per non dare l’impressione [...] di una grande superficialità, di una lezione ripetuta a pappagallo”. Mah.
Ci sono poi diversi straw man arguments:
– “Non è affatto detto che chi protesta o s’indigna, magari trovandosi in una posizione di debolezza, abbia ragione”. E chi sostiene che le studentesse hanno ragione non nel merito, ma *perché si indignano*?
– La loro critica all’organizzazione del lavoro in Normale sarebbe ispirato all’“americanissimo (e infame) Rate My Professor, con relativa gogna mondiale su internet”. Criticare è capitalista? 🤣
– Le studentesse avrebbero sostenuto che “tocca anche a loro decidere che cosa il docente insegnerà l’anno successivo” solo per aver chiesto ai docenti di aprirsi di più agli input provenienti dagli studenti. Anche qui, una posizione più che legittima ridotta a caricatura.
Venendo a questioni più di sostanza, l’autore accusa le studentesse di aver ripetuto, sull’università italiana, “cose che si sentono in continuazione, nel dibattito corrente, semplificandole fino alla caricatura”. In sostanza, ripetono cose senza capire.
Io ho sentito quasi soltanto dati oggettivi (sul sotto-finanziamento, sull’aumento della quota premiale nei finanziamenti, sulla diminuzione nel reclutamento di docenti, sullo scarso numero di laureati) nel discorso delle studentesse. Tutti numeri verificabili.
Non mi pare fra l’altro che l’autore contesti nessuna di queste affermazioni. Ma allora perché deve farne (lui sì) una caricatura dicendo che ripetono a pappagallo e semplificano, se si limitano a riportare dati oggettivi? Mistero.
E infine, veniamo alla più imperdonabile delle colpe delle studentesse: aver definito la tendenza in atto nell’accademia (non solo italiana) ‘neoliberale’.
Comincio notando che, non si sa perché, l’autore sente il bisogno anche qui di storpiare il termine (corretto) usato dalle studentesse, in “neoliberista” (sarebbe interessante speculare sul perché, ma non mi interessa poi tanto).
Secondo l’autore ”bisognerebbe evitare di ricorrere alla scorciatoia delle grandi teorie macroeconomiche”. A me non pare che le studentesse usino una scorciatoia, ma una definizione, che appunto identifica fenomeni accomunati da certe caratteristiche. La lingua funziona così.
Nello specifico, gran parte delle recenti evoluzioni dell’accademia a livello mondiale rispondono all’esigenza di avere università che formino meglio per il mondo del lavoro, finanziare di più le discipline che producono “risultati” applicabili, -->
incoraggiare la competizione fra ricercatori per i fondi di ricerca, legare assunzioni e promozioni alla competizione nelle pubblicazioni.
In Italia a queste tendenze si è aggiunta (specialmente da parte di governi di centrodestra) la convinzione che gli universitari (in quanto statali e garantiti) fossero una bestia da affamare (è una citazione), almeno un po’.
Ora, si può non avere in simpatia il termine “neoliberale”, ma è un termine pienamente legittimo per definire strategie che introducono elementi di competizione di mercato in contesti che ne erano privi.
Si può benissimo pensare che l’università italiana avesse bisogno (almeno in parte) di questo, e che alcune di queste innovazioni siano state positive. Ma l’uso del termine non ha alcunché di illegittimo, semplificatorio, o ideologico.
(fra parentesi, quando l’autore accusa le studentesse di aver introiettato il paradigma neoliberale perché criticano i professori in una logica di customer satisfaction, ci mostra che anche lui capisce perfettamente cosa si intende per neoliberale)
L’autore liquida tutta questa parte di critica a posa priva di sostanza, per poi elencare quelli che secondo lui sono i *veri* mali dell’università italiana.
Ora, su alcuni di questi penso che in molti ci troveremmo d’accordo senza problemi, e nessuno pensa che gli ultimi vent’anni abbiano cambiato completamente faccia all’università italiana, trasformandola, da quel che era, nell’accademia, chessò, degli USA.
Alcune caratteristiche assolutamente non liberali, ma piuttosto aristocratiche, di cooptazione, resistono ancora oggi? Ma certo.
Questo però non significa che le riforme degli ultimi vent’anni non siano andate tutte in una direzione precisa. Si dovrebbe poter discutere laicamente di cosa è stato buono, cosa inutile e cosa dannoso, senza che questo sia lesa maestà; -->
senza che qualcuno senta il bisogno di dire che i problemi sono ben altri, che tu studentessa non hai le competenze per affrontarli, che hai voluto la bicicletta e allora pedala, che ripeti a pappagallo senza capire.
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Sul Financial Times, @MESandbu intervista @rodrikdani, che smonta pezzo per pezzo l'armamentario ideologico del "Washington consensus". Merita un riassunto, quantomeno dei punti principali:
Rodrik dice "I democratici di Clinton, il New Labour, l'SPD, i socialisti francesi negli anni 1990 erano così affascinati dal modello neoliberale da averlo essenzialmente adottato, e addolcito con un po' più di attenzione ai poveri".
Ancora: "Viviamo in un mondo dove il problema è che, per via di diverse tendenze (cambiamenti tecnologici e globalizzazione dei mercati) abbiamo una penuria cronica di buoni lavori. Penso che la scomparsa di buoni lavori stia alla base della crescita dei populisti di destra".
Cosa ci dice la scienza politica su come si costruiscono le coalizioni e che performance ci possiamo aspettare da coalizioni più o meno larghe? #GovernoDraghi
La teoria dei poteri di veto di George Tsebelis (riassunta nel suo libro del 2002 "Veto players: how political institutions work") ci dice che in un governo multi-partito ogni partito è "veto player", cioè può opporsi a politiche che sono troppo lontane dalle proprie preferenze.
Intuitivamente, al crescere del numero dei partiti, si restringe il numero di politiche in cui i partiti possono trovare compromessi. Tsebelis rappresenta i possibili punti d'incontro dei partiti graficamente così:
Poi, quando la polvere si sarà depositata e il governo di salvezza nazionale sarà partito, spero potremo ragionare con calma di quanto anomalo sia stato che il capo dello stato abbia buttato un nome in mezzo senza consultare i partiti, 1/6 #Draghi
senza certezze su chi l'avrebbe sostenuto, senza uno straccio di prospettiva politica (anzi dicendo che il governo non avrebbe dovuto identificarsi "con alcuna formula politica"), niente.
2/6
Ora i partiti non devono solo posizionarsi, ma ovviamente devono pensare a che coalizione costruiscono (o rompono), che punti programmatici possono portare a Draghi, con chi possono farli avanzare. E tutto questo in un paio di giorni, perché signora mia bisogna far presto.
3/6
Uno dei mantra più ricorrenti di chi sostiene #Renzi è che non sia mai stato accettato nel Pd, che gli abbiano fatto la guerra perché considerato un corpo estraneo. Ma mettiamo in fila qualche fatto. #crisidigoverno
Renzi diventa segretario alla fine del 2013. I gruppi parlamentari sono prevalentemente stati scelti da #Bersani che era segretario al tempo delle elezioni.
Questi eletti di Bersani lo ostacolano talmente tanto che, passate poche settimane dalla sua elezione a segretario, promuovono l'avvicendamento con Enrico Letta e lo fanno direttamente presidente del consiglio.
#Renzi continua a puntare a un governo che *non* è guidato da Conte e *non* è ristretto a questa maggioranza. Per questo è prevedibile che punti ad allungare la crisi, a dire che sì su alcune cose si può lavorare, ma su altre non ci siamo. #crisidigoverno corriere.it/politica/21_ge…
Renzi si è esposto molto e se chiude ri-accettando #Conte con qualche modifica al programma indubbiamente non ci fa una bella figura. Mentre se riesce a imporre un nuovo presidente, nuovi ministri, un profilo di governo completamente nuovo, ne esce vincitore.
Il problema è che ci sono gli altri partiti, che già stanno pagando un prezzo in termini di consenso e coesione interna *per il solo fatto* di aver accettato di parlare di nuovo con Renzi dopo quello che ha fatto. Quanto potranno concedergli?
Con il ballon d'essai di #Renzi del "#Conte non ora, prima incarico esplorativo, poi vediamo" entriamo nella fase "kick the can down the road" di questa #crisidigoverno.
Mattarella si trova M5s, Pd e Leu che dicono "Conte". Se Renzi non poneva veti su Conte, Mattarella avrebbe reincaricato l'attuale presidente del consiglio, che poi sarebbe andato a trattare con tutti. Questo sarebbe stato lo sbocco "lineare" della crisi.
Il problema di Renzi è che se mette un veto a Conte perde qualche senatore e rischia che il governo prosegua senza di lui; se apre a Conte fa la figura del fesso, e quindi è costretto all'ennesimo equilibrismo (chiudo ma non chiudo, apro ma non apro).