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#MdT Inverno 1944 – Mi chiamo Sara e ho tredici anni. Tre anni fa vivevo in Lituania, con tutta la mia famiglia. Poi erano arrivati i tedeschi. E mio padre e mio fratello sono stati rinchiusi nella "Fortezza numero sette". So che sono stati uccisi con altre centinaia di ebrei.
Mia mamma e mia sorella sono state portate altrove. Non so dove.
A soli 10 anni sono rimasta chiusa in un campo per bambini per ben tre anni.

“Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo piú che giorno fosse, notavo soltanto il cambiamento delle stagioni”.
Era un freddo giorno d’inverno quando i tedeschi radunarono noi bambini. Siamo stati caricati su carri bestiame. Un viaggio lungo.
Quando il treno è arrivato faceva freddo.
Fa sempre molto freddo d’inverno ad Auschwitz.
Siamo scesi dal treno. Siamo tutti sporchi e maleodoranti. Un medico ci passa in rivista. Alto, in uniforme delle SS, guanti bianchi. Qualcuno lo chiama per nome, "dottor Mengele!".
Con un dito comincia ad indicare quali bambini devono andare a destra e quali a sinistra
Io devo andare nel gruppo di sinistra. Ci sono donne, le ausiliarie tedesche, che ci spiegano che dobbiamo andare a fare la doccia. Ci spogliamo, ma, all’atto di entrare nel locale del bagno, non so perché, mi metto come ultima della fila.
La stanza non fa in tempo a riempirsi. I bambini urlano perché si sono accorti che in quel locale non c’è l’acqua. Il panico si diffonde rapidamente e tutti cercano disperatamente di uscire dalla camera delle docce.
I bambini tentano di uscire e io vengo schiacciata contro la porta. Un soldato tedesco tenta di spingermi dentro per poterla chiudere, ma non ci riesce, il mio corpo la blocca. Allora, mi tira fuori con uno strattone e chiude la porta.
Mi allontano, sono nuda. Un soldato mi chiede: “Dove sei stata?”. Rispondo “A fare la doccia”. E quando chiede se sono con qualcuno alcune donne di un gruppo di zingari risponde “E’ con noi”.
Mi vesto. E dopo un po' li seguo. Entrando insieme a loro nella stanza da cui ero riuscita a fuggire.
Perché loro sono il gruppo incaricato di lavare i cadaveri dei bambini con un idrante. Alla fine caricano i bambini sulle carrette per portarli ai forni.
Restammo poco ad Auschwitz. I tedeschi dovevano svuotare il campo e scappare prima dell’arrivo delle truppe sovietiche. “Maledetti ebrei, è finita per noi, ma ci farete compagnia” ci urlavano. Molti morirono.
Una sera, durante la marcia, sostammo in una stalla. Ci chiesero di cantare. Lo facemmo io e la mia migliore amica, Clary.
Alla fine ci sdraiammo per riposare. Clary mi disse che sentiva tanto freddo.
La strinsi a me.
Eravamo molto magre (io pesavo 23 chili) e avvinghiate sentivamo ognuna le ossa dell’altra. Al mattino, quando mi svegliai, sentii che Clary era gelida. Era morta tra le mie braccia.
Sara Rosenbaum fu salvata dalle truppe sovietiche e ricoverata in ospedale per un principio di tubercolosi ossea. Quindi si recò in Israele per iniziare una nuova vita. Dopo essersi sposata si è trasferita in Svezia.
“Sembrerà strano, ma la sola vista di un cane pastore tedesco mi far star male ancora oggi perché era con quei cani da guardia, sempre minacciosi, che i soldati ci tenevano in riga”.
Sara Rosenbaum riceve quotidianamente minacce da neonazisti per questa testimonianza. Gli amici le avevano sconsigliato di parlare temendo per la sua incolumità. Ma lei continua a raccontare. “sono forse l’unica che è uscita viva da una camera a a gas. Lo devo raccontare”.
"Non dico che le camere a gas non siano esistite. Io non le ho potute vedere. Non ho studiato specificamente la questione, ma credo che sia solo un “dettaglio” nella storia della seconda guerra mondiale"
(Jean-Marie Le Pen)

Già. Un dettaglio. Per qualcuno solo un dettaglio.
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