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“Il mio appetito sessuale non mi consente la monogamia”.
Fu questa la sua giustificazione. Mi ferì, anche se ero a conoscenza dei suoi rapporti ultra veloci consumati sul tappeto o sotto la finestra nelle splendida “Sala del Mappamondo”.
Non era bastato essere bella, bionda, ricca, intelligente, disinibita, non invadente, anzi riservata.
Non era bastato essere la sua musa.
Averlo fatto conoscere al mondo con una biografia agiografica, intitolata Dux, in inglese "The life of Benito Mussolini".
Era stata tradotta in diciannove lingue, compreso il turco e il giapponese.
Le diciotto edizioni diffuse in ogni parte del globo avevano giovato enormemente al suo prestigio internazionale.
Malgrado la dittatura che aveva instaurato.
E tutto per merito mio, Margherita Sarfatti, sua amante.
Ebrea.
Ricevuta nel 1934 alla Casa Bianca con gli onori della moglie di un capo di Stato.
Preso il tè con Eleanor Roosevelt.
Lo avevo conosciuto nel 1918, durante un comizio, con la gente in delirio.
E avevo deciso che sarebbe stato il mio uomo.
Lui aveva bisogno di me. E dei miei soldi.
Fui io a pagargli il biglietto del vagone letto che gli consentì di andare a Roma a ricevere dal Re l’incarico.
Non ci crederete. Nel 1921 mi presentai a casa sua.
Ci mancò poco che Rachele mi buttasse dalla finestra.
Non sono mai stata gelosa.
In fondo, a parte le centinaia di “visitatrici fasciste” sul tappeto, lui aveva amato, oltre me, solo Angelica, Rachele e la Claretta.
Quando lui si imbarcò in quelle stupide avventure che avrei dovuto fare?
Feci quello che qualsiasi donna avrebbe fatto. Gli dissi che stava sbagliando.
L’alleanza con Hitler? Un errore. Come pure l’avventura coloniale.
E glielo misi per iscritto.
Alla vigilia della campagna d’Etiopia gli scrissi una lettera: "Lei ha già abbastanza da colonizzare nelle Puglie, in Sicilia e in Calabria … Se Lei va in Abissinia, allora cadrà nelle mani dei tedeschi e Lei è perduto”.
Come andò a finire?
Come la prese?
Male, anzi malissimo.
Nel 1936 mi presentai come altre volte a Palazzo Venezia.
Mi fece aspettare due ore. Poi fece uscire il suo maggiordomo, Quinto Navarra.
Era imbarazzatissimo quando mi disse che non sarei stata più ricevuta da Mussolini.
La verità è che io avevo ormai 56 anni e Claretta, quella sfacciata ragazzina della media borghesia romana, di anni ne aveva molti, molti di meno.
E qui finisce la mia storia col Duce.
Margherita Sarfatti era ebrea e nel 1938, dopo la pubblicazione delle leggi razziali, decise di espatriare.
Fuggì negli Stati Uniti mentre mia sorella, Nella, volle restare in Italia.
Nella venne deportata ad Auschwitz col marito e lì morirono entrambi.
Rientrò in Italia nel 1947, e morì nel 1961 a 81 anni, nella sua villa sul lago di Como.

Mussolini era arrivato in alto grazie ad una ebrea. Che lo aveva aiutato non solo dal lato finanziario, ma lo aveva influenzato in modo profondo.
La maggior parte della gente la conosce solo come "l’amante del duce". Margherita Sarfatti, non fu solo fascismo. Fu molto, molto di più.
Per oltre vent’anni influenzò in modo profondo la cultura e l’arte italiane.
Parlava correntemente quattro lingue. Ebbe una rubrica sull’Avanti.
Convinta femminista, sostenitrice dell’emancipazione della donna, collaborò con la rivista di Anna Kuliscioff “La difesa delle lavoratrici”.
Scrittrice e critica d'arte italiana, Margherita fu una donna in anticipo sul proprio tempo.
Indipendente, che mal sopportava sentirsi dire di no.
Nemmeno da Mussolini.
“Mi hai presa, mi hai conquistata, ti sei fatto amare oggi? Sì? Tanto meglio, domani bisogna ricominciare da capo … Io sono nuova; io nasco ogni mattina. Ciò che feci ieri non è la ragione determinante di quanto farò domani…”.
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