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Ha importanza? Sapere come sono morta, intendo. Ne avete fatte di ipotesi sulla mia dipartita. Suicidio premeditato, omicidio è stato lui, omicidio per conto di altri, omicidio e lui non ne sapeva niente, persino "è morta perché stavo giocando con la sua pistola".
Cominciamo dalle certezze.
Più o meno all’altezza del cuore avevo un foro prodotto da un’arma da fuoco calibro 6.35. Secondo "loro" ero stata io a spararmi un colpo al cuore. Dovevo aver bevuto, perché lo mancai di diversi centimetri, perforando il polmone sinistro.
Era il 18 settembre 1931. Una morte lenta e dolorosa. Un buco nel petto, un polmone perforato e un naso schiacciato sul pavimento di un appartamento di classe a Monaco, Prinzregentenplatz, numero 16.
Come ci ero arrivata?
Non ci ero arrivata. Io abitavo lì. Con lo «zio Alf».
Mi chiamo Angelika Raubal, ma in famiglia mi chiamavano "Geli". Sono nata a a Linz il 4 giugno 1908. Della mia infanzia c’è poco da dire. La perdita di papà quando avevo due anni, il liceo a Vienna, e la mia prima bocciatura. Per punizione mamma mi mandò a vivere da una zia.
Quando conobbi lo «zio Alf»? In Baviera. Avevo sedici anni. Mi dissero che era stato nominato mio tutore legale. Una volta conseguita la maturità cominciò a portarmi con lui. Dappertutto. La prima volta al congresso del Partito Nazista a Norimberga.
C’era anche mamma, la sua sorellastra, e come autista un certo Rudolf Hess.
E poi Berlino, Amburgo, Weimar. Quando decisi di studiare medicina all’università Ludwig Maximilian mi trasferii in una pensioncina a Monaco.
Che lasciai dopo sei mesi, perché lo «zio Alf» mi voleva con sé.
Una bella stanza ammobiliata al civico n° 16 della Prinzregentenplatz, proprio sopra il suo appartamento privato. Avevo 19 anni.
Come vi ho detto lui mi portava sempre con sé. Ai congressi del partito nazista, a tutte le cene, a tutte le conferenze. E facevo la mia bella figura in mezzo a tutte quelle mogli.
E poi a teatro, ai concerti, a comprare vestiti e a fare lunghe passeggiate.
Ero una ragazza semplice.
Niente gioielli, tranne una svastica d'oro che mi era stata donata dallo «zio Alf». Entusiasta della vita e piena di sogni. Sempre allegra, insomma. Come tutte le ragazze della mia età. Diciannove anni. La metà di quelli dello zio.
Poi lui cambiò. Basta teatro, basta concerti, basta ristoranti. Basta passeggiate nei boschi dell’Obersalzberg. Basta feste, basta tutto. Le sue attenzioni verso di me diventarono particolari.
All’inizio frasi sussurate che mi facevano arrossire
In seguito atteggiamenti sempre più morbosi, il tutto condito da una gelosia ossessiva.
Non potevo uscire (se non accompagnata) e conoscere altre persone.
Mi impedì persino di andare a Vienna a studiare.
Cominciò a considerarmi una sua proprietà.
Mi sentivo in trappola in quella gabbia.
Molte cose mi mettevano a disagio, come quei ritratti in pose “pornografiche”.
I suoi gusti sessuali erano “nauseanti ed indecenti”.
Un colpo al cuore, mancato, con una Walther calibro 6,35 mm. Come so che era una Walther? Perché l’avevo vista tante volte nella camera dello zio. La teneva in un cassetto. Dicono che quando sono morta lo “zio Alf” si trovasse a Norimberga. Non so.
Quello che so è che lui era l’uomo ideale per tutte le donne. Riservato, galante, dai complimenti raffinati. Cortese e raffinato, non beveva, non fumava. Mangiava poco. L’unica ossessione? La paura di contrarre la sifilide, per questo non amava il contato fisico.
All’inizio erano state le donne a mantenerlo. La sua oratoria non convinceva solo gli uomini. Le donne ne erano affascinate. Di tutte le età. Come Carole Hoffmann, 61 anni, vedova, che all’inizio gli diede soldi e ospitalità.
E poi Elsa Bruckmann, 59 anni, moglie dell’editore Bruckman. Fu lei a pagargli l’affitto di casa.
Helene Bechstein moglie del fabbricante di pianoforti, gli comprò i vesti per i comizi impegnando i gioielli di famiglia.
Ma lui aveva un’ossessione per le donne giovani. Come la commessa Maria Reiter. Aveva solo 16 anni.
Tranquilli, per Hitler le donne erano solo oggetti, ornamenti in un "mondo di uomini".
Heinrich Hoffmann, fotografo ufficiale di Hitler, disse che dopo la mia morte “i semi della disumanità iniziarono a crescere all’interno di Hitler”.
Sta a vedere che adesso la colpa è mia.
Io muoio e lo zio si arrabbia a tal punto da decidere di fare a pezzi il mondo. Mah!
So che dopo la mia morte si rinchiuse in sé stesso, quello sì. Commissionando ad uno scultore un busto con le mie sembianze e due miei ritratti da tenere uno nella stanza da letto e uno presso la cancelleria di Berlino.
Ma io non ho colpe di quello che ha fatto. Conoscete benissimo come sono andate le cose. Aveva provato a prendere il potere con quella specie di colpo di stato (Putsch di Monaco 1923) e gli era andata male.
In carcere non pensò solo al Mein Kampf, ma mise a punto un piano B.
E lo disse chiaramente ai suoi. “Dobbiamo turarci il naso e conquistare […] terreno elettorale. Ci vorrà più tempo che con le fucilate, ma prima o poi la Germania sarà nostra”.
Comunque quello che so è che sono stata la sua prima vittima.
Io, Angelika Raubal, detta "Geli".
La prima vittima di una serie infinita.
Una vittima ingiustamente dimenticata.
Questa a grandi linee la storia di “Geli”.
Se vi piacciono i gialli storici o se volete saperne di più sulla sua morte vi consiglio il libro di Fabiano Massimi, al suo esordio letterario. Dentro c’è realtà storica (molta) e dell’avvincente finzione (poca).
Appena letto.
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