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asino morto @AsinoMorto
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Ora visto che è il 4 novembre vi racconto una storia edificante e patriottica, oddio proprio edificante magari no e patriottica insomma, nel senso che patria è il nome che si dà lo stato quando ha bisogno di te, diceva quello.
Allora succede che arriva Caporetto, un bel disastro, “rotta” nel senso che era saltato tutto, tipo quando piove e i torrenti tracimano, le montagne franano, le case abusive crollano, i tombini intasati sbroccano, tipo così. Ma più scenario bellico.
E la responsabilità di Caporetto è tutta delle alte gerarchie militari che non avevano capito una minchia, quelli erano rimasti alla guerra ottocentesca, i cavalli, l’attendente che serve il the sotto il fuoco delle spingarde, stronzate così.
E quei generali, tipo il generale Leone di Lussu per intenderci erano perlopiù incompetenti, talvolta sociopatici, sempre con la puzza sotto il naso, poco inclini a preoccuparsi della merda e sangue e topi e viscere e brandelli e disperazione e cose così, della guerra di trincea.
E ovviamente non ci hanno pensato un attimo a scaricare la responsabilità della disfatta sui soldati di truppa, traditori, codardi, vigliacchi, disobba, privi di buone maniere e istruzione. Le élite fanno così, quando la fanno grossa, poi dan la colpa a voi. Tipo il PD.
Insomma finisce la guerra e i nostri soldati ritornano. Anche quelli che stavano a Caporetto quando è successo Caporetto. Son tipo 270mila soldati, chi disperso, chi catturato da Cecco Beppe, chi vai a sapere te il casino che c’era in quei giorni.
E sai cosa fanno? Li internano, in tre campi in Emilia: Mirandola, Castelfranco e Gossolengo. Veri e propri campi di concentramento, erano traditori, “che soffrano un po’ di fame”, dicevano i generali Leone.
Quei campi dovevano essere di “riordinamento”, servivano per interrogare i soldati del Regno e capire chi aveva tradito e perché. Ma anche per punirli un po’, che era meglio se morivano in battaglia, più eroico. E poi alla fine si scopre che non sapevano dove metterli.
Ma che ciavete in testa, volevate interrogare duecentosettantamila soldati? Traditori? Ma de che? E poi, soprattutto, ma dove li volevate mettere? Come pensavate di sfamarli? Ma non sarete mica grillini ve’?
E infatti non ciavevano la benché minima idea di come fare, dove metterli, cosa dar loro da mangiare. E prendono duecentosettamila uomini malati, malnutriti, demoralizzati, scazzati e li mollano lì, alla guazza. E c’è chi dorme nelle stalle, chi lo sfamano le azdore.
Un disastro insomma, tipo le popolazioni dopo il terremoto, abbandonati, al freddo, tipo una Caporetto, tipo politici e militari in alta uniforme, capaci solo di proclami in tivù, che allora non c’era ma è lo stesso.
E succede che si incazzano un po’ tutti, la stampa, i socialisti in parlamento, le autorità locali (prima i soldati emiliani!), la Croce Rossa. E poi ma che idea era quella di interrogare quei poveracci, prima di tutto, prima di pensare a come curarli, sfamarli, ospitarli?
Insomma, la cosa si sgonfia, come un reddito di cittadinanza qualsiasi, come un mille asili da dimenticare nei primi cento giorni. Quegli straccioni, alla chetichella vengono congedati e mandati a casa, fuori dai coglioni.
Intanto però, tra novembre 1918 e gennaio 1919 muoiono in quasi mille, di Spagnola, di stenti, di troppi vaffanculo, tanto chi se ne frega, erano “morti ambulanti”, così li chiamavano, i patrioti, la bandiera, presente! I sacri confini.
Poi arrivò il fascismo e di questa storia non si parlò più, a quelli non piacciono le storie così, preferiscono le vittorie, sarà perché non ne hanno quasi mai vissuta una. Quelli preferiscono i morti, possibilmente quando sono gli altri.
A me invece piacciono le storie straccione, di quelli che son perdenti prima di partire, le storie di soldati per forza, che però han vissuto la trincea e la paura della baionetta. E poi vivi, tornati a casa, pure la rottura di coglioni di essere accusati di tradimento.
Così funziona nel paese delle mille Caporetto, le storie non sono quasi mai edificanti né tantomeno troppo patriottiche. Ma sono le nostre storie, teniamocele strette, perché son sempre quelle.
E per chi volesse, c’è un libro di Fabio Montella, “1918 prigionieri italiani in Emilia”, che racconta un po’ meglio tutto quanto.
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