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Molti si meravigliano dello spirito competitivo di noi neri.
Non è difficile. Almeno per me non lo fu.
Ero la ventesima di ventidue figli di una povera famiglia nera del Tennessee.
Da piccola presi la poliomielite rischiando di rimanere zoppa per sempre alla gamba sinistra.
Fui costretta a portare un apparecchio correttivo.
Lo spirito competitivo? Provate voi ad andare due volte alla settimana all'ospedale per fare le terapie.
Ma non alll’ospedale più vicino, destinato solo ai bianchi, ma a 80 chilometri di distanza. Altro che spirito competitivo
Così fino a dodici anni quando mi dissero che potevo finalmente camminare normalmente.
Mi piaceva lo sport e inizia a giocare a pallacanestro alla scuola Burt High School. Una scuola per soli neri.
Fu un allenatore di atletica che mi fece innamorare della corsa
Se sono diventata brava?
Qualcuno lo pensò sicuramente visto che mi convocarono alle Olimpiadi del 1956 a Melbourne in Australia per la staffetta statunitense della 4x100 m.
Vinsi la medaglia di bronzo.
Io, Wilma Rudolph.
E avevo solo sedici anni.
La “gazzella nera” cominciarono a chiamarmi. Già.
Non era esattamente il termine con cui mi apostrofavano i ragazzi quando camminavo per strada indossando scarpe ortopediche per sostenere il piede.
Avevo dovuto indossarle per ben due anni.
Non importa.
Quando tornai a scuola, dopo le Olimpiadi, dissi a tutti che il mio traguardo sarebbero state le Olimpiadi del 1960, a Roma. Per vincere almeno una medaglia d’oro.
Arrivò il 1960, andai a Roma, ma non vinsi una medaglia d’oro. No.
Di medaglie d’oro ne vinsi addirittura tre, prima e unica donna al mondo a vincere tutto quell’oro alle Olimpiadi.
Cominciai con i 100 metri. Prima in semifinale feci 11”3 eguagliando il record mondiale.
Poi in finale 11”. Non omologato per troppo vento a favore.
Un tempo folle se pensate alle scarpe, al terreno e agli indumenti di allora.
Tre giorni dopo vinsi i 200 metri in 24”0 dopo aver eguagliato il record olimpico in 23”2 nelle batterie.
Infine vinsi la staffetta 4x100 m. con il nuovo record mondiale in 44”5.
Niente male vero?
Il giornali si inventarono una storia tra me e Livio Berruti.
Per una foto mano nella mano scattata subito dopo le presentazioni. In realtà non ci fu niente tra noi.
Mai in privato. Mai appartati. Mai soli. E nemmeno tra me e Cassius Clay, per i miei allenatori il mio spasimante
Dopo Roma l’Associated Press mi nominò Atleta donna dell'anno nel 1960 e nel 1961, anno in cui migliorai il record mondiale dei 100 m correndo in 11"2.
L’anno dopo. A 22 anni, abbandonai le competizioni.
Altre ambizioni. Per esempio fare l’insegnante.
E mi sposai, la prima volta, divorziando sei mesi dopo.
Grazie per avermi definito “negretta” in quell’occasione. Comunque niente a che vedere con quello che mi era successo tre anni prima.
Avevo una gara sui 200 metri in Texas.
Quell’autista bianco si rifiutò di portarci allo stadio perché eravamo atlete nere. Fummo costrette a cercare un altro autista. Arrivai allo stadio appena appena in tempo per fare il record del mondo dei 200 m in 22”9.
Ci fosse stato Twitter sapreste nome e cognome dell’autista
Sono morta nel 1994 all’età di 54 anni per un male incurabile al cervello.
Una delle prove dove non conta la razza, il sesso o la religione.
Ho lasciato una fondazione a mio nome per aiutare bambini in difficoltà.
"Vincere è bellissimo, ma se vuoi veramente fare qualcosa nella tua vita, il segreto è imparare a perdere. Nessuno può essere sempre imbattibile. Se riesci a riprenderti dopo una sconfitta e riesci ad andare avanti e a vincer un’altra volta, un giorno sarai un campione”
All'inizio vi ho parlato dello spirito competitivo di noi neri. Forse la spiegazione del perché diventai così veloce è più semplice. Molto più semplice.
"Avendo 21 fratelli, se non mi sbrigavo a correre non trovavo mai niente da mangiare.“

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