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In balia della memoria e delle sue oscillazioni, eccomi a dettare ciò che il tempo mi lascia delle care e certamente misteriose immagini che, per me, furono Macedonio Fernández.
Nel corso di una vita ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna mi ha impressionato come lui, e neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di esibire, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, e tuttavia ne era il centro.
Ereditai da mio padre quell’amicizia. Verso il 1921 tornammo in Argentina dall’Europa. Le librerie di Ginevra e un certo stile di vita orale che avevo scoperto a Madrid mi mancavano molto, all’inizio; dimenticai questa nostalgia quando conobbi Macedonio.
Ricordo la fronte vasta, gli occhi di un colore grigio indefinito, la chioma e i baffi grigi, la figura minuta e quasi volgare. Il corpo in lui era quasi un pretesto per lo spirito. Chi non l’ha conosciuto può pensare ai ritratti in bianco e nero di Mark Twain.
In un cortile di calle Sarandí, Macedonio mi disse un giorno che se avesse potuto andare in campagna e sdraiarsi a mezzodì sulla terra e chiudere gli occhi e capire, distraendosi dalle circostanze che ci distraggono, avrebbe potuto risolvere immediatamente l’enigma dell’universo.
Una volta lessi che in certi monasteri buddisti il maestro suole ravvivare il fuoco con qualche immagine sacra, o destinare a usi infami i libri canonici, per insegnare ai neofiti che la lettera uccide e lo spirito vivifica. La notizia si addiceva molto alle visioni di Macedonio.
Ma quando una volta gli raccontai che un cinese aveva sognato di essere una farfalla e non sapeva, al risveglio, se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che ora sognava di essere un uomo, Macedonio non si riconobbe in quell’antico specchio.
L’attività mentale di Macedonio era incessante e rapida, anche se l’esposizione poteva essere lenta; né le confutazioni né le conferme altrui lo interessavano. Seguiva imperturbabile la sua idea.
Macedonio possedeva in sommo grado le arti dell’inazione e della solitudine. La vita pastorale in un territorio quasi deserto aveva insegnato a noi argentini l’abitudine della solitudine senza noia; Egli era capace di star solo, senza far nulla, per parecchie ore.
Ai nostri tempi la televisione, il telefono, e perché non dirlo?, la lettura, hanno la colpa di averci fatto disimparare quel prezioso dono. Macedonio stava solo e nulla aspettava, abbandonandosi docilmente al quieto fluire del tempo.
Questi e altri aneddoti corrono il rischio di sembrar ridicoli; tali ci parvero a quel tempo, forse esagerandoli un po’... Non voglio che di Macedonio si perda nulla. Io continuo a credere che il loro protagonista sia l’uomo più straordinario che abbia conosciuto.
Lo scrivere non era lavoro per Macedonio Fernández. Egli viveva per pensare. Si abbandonava quotidianamente alle vicissitudini e sorprese del pensiero, come un nuotatore a un grande fiume, e quel modo di pensare che si chiama scrivere non gli costava il minimo sforzo.
Macedonio non attribuiva il minimo valore alla sua parola scritta; quando traslocava, sovente, non si portava via i manoscritti d’indole metafisica o letteraria che si erano accumulati sul tavolo, per terra e riempivano cassetti e armadi.
Molto si perse dei suoi scritti. Ricordo di avergli rimproverato questa distrazione; mi disse che supporre che possiamo perdere qualcosa è una superbia, dato che la mente umana è tanto povera da esser condannata a trovare, perdere e riscoprire sempre le stesse cose.
Egli opinava che la poesia sta nei caratteri, nelle idee o in una giustificazione estetica dell’universo; io, col tempo, sono giunto a sospettare che stia essenzialmente nell’intonazione, in un certo respiro della frase. M. cercava la musica nella musica, non nel linguaggio.
A Macedonio la letteratura importava meno del pensiero e la pubblicazione meno della letteratura, cioè quasi niente. Macedonio voleva capire l’universo e sapere chi era o sapere se era qualcuno. Scrivere e pubblicare per lui erano cose subalterne.
Macedonio, semplicemente, ci proponeva l’esempio di un modo intellettuale di vivere. Coloro che oggi si chiamano intellettuali non lo sono in realtà, perché fanno dell’intelligenza un mestiere o uno strumento per l’azione.
Qui, oggi, io vorrei ritrovare in qualche modo colui che fu Macedonio, quella felicità di sapere che in una casa di Buenos Aires, c’era un uomo magico la cui sola esistenza noncurante era più importante delle nostre e delle sue venture o disavventure personali.
Oltre alla sua dottrina filosofica e alle sue frequenti e delicate osservazioni estetiche e metafisiche, Macedonio ci offriva, e continua a offrirci, lo spettacolo incomparabile di un uomo che:
Ma chi era Macedonio Fernández? Per molti anni, aldilà dei confini argentini, si vociferava che non esistesse e che fosse uno dei tanti personaggi della sconfinata fantasia di Jorge Luis Borges.
Macedonio Fernández nacque nel 1874 a Buenos Aires, dove morì nel 10 Febbraio del 1952. Si laureò in legge come si usava allora; professione che esercitò poco o nulla. Padroneggiava sei lingue, cosa allora niente affatto comune fra gli intellettuali del suo paese.
Queste sono le parole scritte e lette da Jorge Luis Borges il giorno del funerale di Macedonio in quel febbraio del 1952:
Nelle ultime parole di commiato in quel febbraio, Borges parlava di Macedonio come uno Zaddik, rifacendosi alla cultura ebraica, un maestro che quegli anni egli imitava fino alla trascrizione, fino al plagio.
Con un personaggio enigmatico della statura di Macedonio non si può non tornare con la mente a Monsieur Chouchani, rabbino e filosofo, maestro di Lévinas e Wiesel, morto dopo poco tempo a Montevideo e riscoperto in questi ultimi anni grazie alla memoria Haim Baharier.
Ma cosa scriveva Macedonio?
Mettiamo da parte per un istante le parole di Borges, e quelle mie, che hanno riempito gli spazi di queste memorie per andare a leggere una lettera di Macedonio:
Fino a che punto la narrativa di Macedonio richiedeva quel tipo di lettore per cui oggi si pronuncia Julio Cortázar: il lettore complice, il lettore che non si lascia trascinare da qualcosa che ha masticato un altro e che lo aliena,
Però, dove possiamo apprezzare al meglio le idee e le innovazioni letterarie di Macedonio è in quello che è il testo centrale della sua opera, Museo de la novela de la Eterna, pubblicato quindici anni dopo la sua scomparsa.
Opera letteraria presentata nella sua interezza come un testo senza un finale, aperto, in cui tutto ruota intorno a possibili realizzazioni e punti di partenza. Tutto questo molti decenni prima che J. Cortázar parlasse del suo lettore complice e U. Eco della sua Opera Aperta.
Lo scopo della 'novella eterna o aperta' per Macedonio è quello di confinare e isolare il non detto, l'ineffabile, riducendo il linguaggio a una singola dimensione, quella riflessiva. Egli usa il linguaggio per costruire il suo opposto, il silenzio.
[Ana Belén Martín Sevillano]
Tutti i contenuti di questa sequenza di memorie sono tratte dalle opere di Jorge Luis Borges e Macedonio Fernández. Alcuni presenti nel mio archivio digitale e altri sulla digi_biblio di Archive. Se ho dimenticato qualcuno o qualcosa vi prego scrivetemelo.
Le immagini allegate ai contenuti sono tratte dal documentario su Macedonio che vi consiglio di guardare qui nel Canal Encuentro:

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In memoria di Macedonio Fernández e di tutti quelli che ogni giorno vivono in silenzio, o quasi, ai margini.

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Como comencé, concluyo con las palabras de Jorge Luis Borges dedicadas a Macedonio Fernández:
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