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“Noi conosciamo tutto di questa scuola: prima di agire studiamo ogni cosa nel dettaglio. Per esempio, sappiamo che il barista si chiama Piero. E' vero, Piero?” Piero annuì, spaventato. Ma spaventati vi assicuro, lo eravamo tutti.
Tutto era cominciato con quel volantino, il 14 agosto del 1970 trovato all’interno dello stabilimento Sit-Siemens di Milano.
I dirigenti apostrofati come “bastardi” al servizio di un sistema di sfruttamento della classe operaia. Firmato. Brigate Rosse
E il giorno seguente altri volantini con i capi reparto definiti aguzzini. E poi nomi, cognomi e indirizzi di dirigenti, capi ed operai dell'azienda accusati di avere legami col padrone.
E l’invito ad agire.
Queste persone «devono essere colpite dalla vendetta proletaria».
Borghesan, cronista de la Stampa: “Se dovessi disegnare la copertina di un album di quegli anni, metterei una foto della Saa”.
Saa, Scuola di Amministrazione Aziendale, prima business school italiana, fondata a Torino negli anni ’50 specializzata nella formazione manageriale.
Già. Era lì che studiavo, nei locali di Via Ventimiglia 115, nel quartiere di Italia ’61.
Ed ero lì anche quel maledetto giorno, l'11 dicembre 1979.
Ricordo che nell’Aula Magna c’erano novanta studenti che stavano seguendo la lezione di statistica del professor Barberis
Nell’aula a fianco il professor Vercellone teneva una lezione a sessanta alunni sul diritto d’impresa.
E poi gli allievi del master intenti a sostenere un esame.
Erano le 15.15.
E stava per iniziare la mezz’ora più difficile la mia vita.
“Sempre i soliti ritardatari” pensarono i bidelli vedendo entrare a scuola una decina di giovani con delle ventiquattrore. Per poco. Almeno fino a quando videro gli stessi giovani estrarre mitra e pistole.
Avevano pure un AK 47.
“Sono di Prima Linea. State tranquilli e non accadrà nulla”, disse un giovane spalancando la porta dell’Aula Magna e trascinando per i capelli un giovane studente. Ricordo che alcuno risero pensando ad uno scherzo.
Tutti zitti invece quando, spalancando il giubbotto, videro le due pistole.
“State calmi e niente scherzi. Siamo qui per una dimostrazione proletaria” urlò il giovane mentre altri giovani armati entravano nell’aula. E poi quella ragazza salì sulla cattedra.
Emozionata, capelli corti, accento emiliano, lesse confusamente un comunicato.
Capimmo solo alcuni passi.
"Voi non dovete più venire in questa scuola, guai a voi se non obbedirete. Qui si formano i quadri dirigenti per le multinazionali, non fate più questi studi"
"Noi siamo di Prima linea, quest'azione è soltanto il proseguimento dell'azione intrapresa con l'eliminazione di Carlo Ghiglieno (il direttore della pianificazione della Fiat Auto era stato ucciso il 21 settembre).
E poi rivolta a noi studenti. “Avete domande da fare
Lo aveva ripetuto e fu allora che uno studente sia alzò pronunciando quella frase: ”Io vengo dal Sud, seguo questi corsi per poter lavorare”.

“Non dico che tu debba fare come noi, ma qui non devi più venire” gli rispose la donna.
Non lo sentii personalmente, ma qualcuno giura di aver sentito anche un “Allora vai a rubare”.
Nel frattempo erano stati spinti nell’aula anche il custode, Giuseppe Silvestri, con la moglie e la figlia, prelevati nel loro alloggio, sul retro della palazzina. E poi quelle scritte
Fu allora che scelsero dieci ostaggi.
Cinque erano docenti.
Diego Pannoni, Vittorio Musso, Lorenzo Uasone, Angelo Scordo e Paolo Turin.
E cinque studenti.
Renzo Poser, Pietro Tangari, Tommaso Prete e Giuliano Dall’Occhio. E il sottoscritto.
Mi chiamo Giampaolo Giuliano, uno dei cinque studenti.
Non so perché mi scelsero e sinceramente la cosa non mi ha mai interessato.
Quel pomeriggio non avevo lezione.
Mi trovavo con alcuni compagni di classe in un'aula a preparare i bigliettini di Natale.
Cinque studenti e cinque professori.
E quelle corde di nylon nero con cui ci legarono i polsi tappandoci la bocca con del nastro per pacchi.
Poi ci misero seduti per terra con la testa verso muro, nel corridoio dei bagni.
La cosa più brutta? Essere l’ultimo della fila.
Con la testa in basso non potevo vedere.
Ma sentivo tutto.
Il rumore degli spari regolare: due colpi ciascuno, a distanza ravvicinata.
2, 4, 6, 8, 10, 12........
Aspettavo il mio turno. E quando toccò a me scoprii con sorpresa che se ti sparano da così vicino senti meno dolore
Due colpi. Uno al polpaccio e uno alla coscia della gamba sinistra” con la canna della pistola a meno di 30 centimetri.
Cos’era quella stringa rossa che mi usciva dalla gamba?
Un proiettile mi aveva reciso due terzi della femorale. Salvo per miracolo. Per pochi centimetri.
Erano le 15.45 quando i terroristi lasciarono i locali della SAA.
Strinsi la cravatta intorno alla gamba ferita.
Le ambulanze arrivarono in pochi minuti.
Mesi di ospedale. «Avevo 33 anni allora. Sciavo e giocavo a tennis. Oggi l'unico sport che posso praticare è il golf».
Ventiquattr'ore dopo Walter Tobagi scriverà che in via Ventimiglia «è stata applicata la spietata tecnica della decimazione».
Ma quegli studenti non erano figli di potenti che stavano studiando nuove tecniche di schiavismo.
Erano lì solo per imparare a lavorare meglio.
Grazie a @AghemoPaolo per avermi ricordato l’assalto alla Saa di Torino dell’11 dicembre 1979.
Sui terroristi di quegli anni si è scritto molto, trascurando spesso le vittime coinvolte.
Come chi rimase ferito in un corridoio di una scuola.
Ridotto a macelleria umana.
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