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Un thread esageratamente lungo, forse anche discretamente noioso, su una storia molto italiana che mi spinse ad intraprendere un pellegrinaggio oltre oceano tanti anni fa e che volevo raccontare da un po’ di tempo:
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Nel 1959 una spedizione fortemente voluta da un italo-argentino di nome Cesarino Fava, che comprendeva due prodigiosi scalatori, l’austriaco Toni Egger e il trentino Cesare Maestri, attaccò il Cerro Torre, un dente di granito di 3000 metri sullo Hielo Continental, in Patagonia.
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Il Cerro Torre si staglia alle spalle del più famoso e più alto Cerro Fitzroy (la montagna che, per intendersi, ha ispirato il disegno del serpente che ha mangiato l’elefante, presente ne Il Piccolo Principe di Saint-Exupery) ed è anche conosciuto con il suo nome originale:
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Grido di Pietra, dato alla montagna dagli antichi abitanti della Patagonia, nonché titolo di un discusso film di Werner Herzog che racconta in maniera molto romanzata la conquista della vetta.
All’epoca era considerata una cima inaccessibile, un’impresa impossibile adatta solo
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Ai folli. Di folli, in quel gennaio del ‘59, ce ne erano addirittura quattro ai piedi della montagna: i già citati Egger e Maestri, che tentavano la scalata dal versante nord-est, e i due lombardi Carlo Mauri e Walter Bonatti (quest’ultimo probabilmente il più grande scalatore
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Di tutti i tempi) che tentavano la scalata dal versante sud-est e che presto abortirono il tentativo, nonostante l’anno prima avessero quasi raggiunto la vetta, per non fare un torto agli altri due che erano partiti prima.
Il 28 gennaio, dopo aver preparato a lungo la via,
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Maestri ed Egger partirono all’assalto della vetta, mentre Cesarino Fava li attendeva al campo base. Fu proprio Cesarino, il 3 febbraio, a scorgere Maestri alla base della parete rocciosa, solo e in condizioni pietose. Maestri raccontò di avere raggiunto la vetta insieme a
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Egger la notte del 31 gennaio e essersi affrettato a ridiscendere a causa del peggioramento del tempo. L’arrivo del maltempo, così comune nella Patagonia meridionale, aveva infatti spazzato i fianchi della montagna, generando una slavina che aveva colpito Egger durante la
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Discesa, facendolo precipitare per centinaia di metri e decretandone la morte. La macchina fotografica con le prove dell’ascensione era andata perduta insieme al cadavere di Egger ma il successo della spedizione non fu inizialmente messo in discussione e la relazione della
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Via di ascesa redatta da Fava e Maestri fu considerata valida.
I tentativi di ripetere l’impresa negli anni successivi da parte di altri scalatori, tuttavia, iniziarono a destare qualche sospetto nella comunità alpinistica internazionale. Veniva contestato a Maestri il fatto
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Che molti dei passaggi da lui descritti risultavano imprecisi o lacunosi. In alcuni casi venne fatto notare come questo o quel passaggio venivano descritti come se fossero stati osservati dal basso, salvo poi risultare completamente diversi nel momento di doverli effettuare.
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La polemica iniziò ad essere talmente accesa che Maestri decise, undici anni dopo, di spazzare via i dubbi, organizzando una nuova spedizione che al contrario contribuì ad alimentarne di nuovi. In primo luogo fu scelto un periodo dell’anno diverso rispetto alla prima
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Spedizione. Poi, anziché ripetere la stessa via della fino ad allora unica conquista, Maestri optò per lo spigolo sud-est, ovvero la via scelta da Mauri e Bonatti nel 1958. Infine, cosa che destò maggiormente lo sdegno della comunità internazionale, Maestri si portò dietro un
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Compressore a benzina da duecento chili che venne issato fino a cento metri dalla vetta per attrezzare il liscio granito della parte finale dell’ascesa con trecentosessanta chiodi a pressione. Chiodi usati da ogni singolo scalatore che ha percorso la Via del
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Compressore dal 1971 al 2012, anno in cui i due scalatori americani Jason Kruk e Hayden Kennedy spezzarono volontariamente tutti i chiodi ad eccezione dell’ultimo, rendendo nuovamente la vetta del Cerro Torre accessibile ad un ristretto numero di scalatori. Uno di questi, il
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Giovanissimo e prodigioso scalatore austriaco David Lama, venuto purtroppo a mancare alcuni mesi fa, pochi giorni dopo fu il primo (e tuttora unico) ad aver raggiunto la vetta in ascesa libera. Perché i due americani lasciarono un unico chiodo? Perché ancora oggi a quel chiodo
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È appeso il compressore che dà il nome alla via, immortalato in decine di foto scattate da tutti coloro che nel corso degli anni hanno avuto il coraggio e l’abilità di ripetere o tentare di ripetere la via del ‘70.
La spedizione in questione, raccontata dallo stesso
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Maestri e dalla moglie Fernanda in un libro di successo intitolato Duemila Metri Della Nostra Vita, come detto, anziché mettere fine alle polemiche ne generò di nuove e più violente. Due, in particolare, furono le contestazioni mosse a Maestri. La prima era di carattere etico:
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La comunità alpinistica anglosassone sosteneva che le montagne andassero conquistate “by fair means”, senza trucchetti, contrariamente alla filosofia più volte esposta dallo stesso Maestri, secondo la quale la montagna era una bestia che andava piegata al volere dell’uomo.
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La seconda era di carattere tecnico e decisamente più importante: Maestri e i suoi compagni avevano raggiunto la sommità rocciosa della montagna, senza tuttavia scalare il “fungo”, ovvero il caratteristico cappuccio di ghiaccio a forma di cavolfiore che ricopre la sommità
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Della montagna e che, ciclicamente, crolla per poi riformarsi in pochi giorni. Le particolari condizioni climatiche presenti nella parte meridionale della catena andina, donano al ghiaccio una consistenza spumosa che gli permette di restare attaccato alla parete rocciosa anche
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A pendenze proibitive (in questo caso, verticali). Proprio la consistenza particolare, tuttavia, lo rende molto difficile da scalare. Hans Kammerlander, famosissimo scalatore altoatesino, che collaborò al film di Herzog sia come consulente che come attore, nel suo
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Bellissimo libro Malato Di Montagna, racconta un aneddoto da brividi: nel tentativo di scavare sul fungo sommitale una buca per la videocamera che il giorno dopo avrebbe ripreso l’attore Vittorio Mezzogiorno nella scena della vetta, fu costretto ad una rocambolesca fuga a
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Bordo di un elicottero della produzione, per evitare di venire trascinato via dal crollo del ghiacciaio.
Legittima quindi la preoccupazione di Cesare Maestri nel dover affrontare questo ultimo terribile ostacolo. Tuttavia l’impresa non poteva considerarsi compiuta neanche
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Questa volta e a nulla valse la protesta dello stesso Maestri, che sostenne che la montagna finiva con la roccia e non considerava il ghiacciaio sommitale parte della stessa; la comunità internazionale non considerò valida la scalata e dichiarò ufficialmente menzogna quella
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Del ‘59, costringendo Maestri a covare un rancore che dura ancora oggi e dividendo gli addetti ai lavori tra chi non crede all’impresa del ‘59 (molti) e chi invece la considera reale (pochi). Uno di questi ultimi, forse il più grande esperto del Cerro Torre per aver aperto
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Sulle sue pareti numerose vie, nel tentativo di provare la conquista del ‘59, riuscì finalmente nel 2005 a ripercorrere per la prima volta la via Egger-Maestri, rinominandola El Arca De Los Vientos, trovandosi costretto ad ammettere che nessuna traccia del
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Passaggio dei due alpinisti era stata trovata, ad eccezione dei primi trecento metri della via.
Le dichiarazioni di Maestri sulla natura del ghiacciaio, l’impresa di Salvaterra e il ritrovamento, nel ‘75, dei resti di Egger ma non della macchina fotografica, segnano nei fatti
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La fine della storia e della reputazione del fortissimo scalatore trentino. Nel frattempo, senza urli e schiamazzi o polemiche o rivendicazioni, un piccolo scalatore lombardo di nome Casimiro Ferrari alla guida di una spedizione dei Ragni di Lecco, decide nel 1974 di tentare
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La scalata del versante ghiacciato del Cerro Torre, la parete ovest, raggiungendo finalmente la vetta e scalando per primo quel benedetto fungo di ghiaccio la mattina del 14 gennaio. La prima volta in cui fu finalmente compiuta l’impresa impossibile.
Casimiro ci tornò
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Addirittura a vivere, ai piedi del Cerro Torre. Le imprese della sua carriera sono meravigliosamente raccontate nel libro L’Ultimo Re Della Patagonia, di Alberto Benini. La sua hacienda sul Lago Viedma, affacciata su uno scenario che nei rari giorni di bel tempo toglie
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Letteralmente il fiato, ha ospitato i quattro scalatori austriaci che nel 2001 fecero l’ennesimo infruttuoso tentativo di ripetere la via Maestri-Egger del ‘59. Da questa spedizione fu ricavato un documentario, Non La Vogliono Capire, prezioso perché ci ha tramandato le ultime
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Immagini di Casimiro, prima che il cancro allo stomaco che gli faceva compagnia da molti anni se lo portasse via da lì a pochi giorni. La spedizione, di fronte all’inaccessibilità della via, decise di ripiegare sul pinnacolo di granito a nord del Torre, fino ad allora
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Inviolato e senza nome. Raggiunta la vetta, decisero di chiamarlo come il loro connazionale austriaco, caduto nel vuoto sotto di loro. Da allora, quel dente storto e bellissimo che fa da sentinella alla parete nord del crudele Grido di Pietra, si chiama infatti Torre Egger.
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Di quel viaggio solitario che mi portò, ormai quattordici anni fa, al campo base del Cerro Torre, conservo un autoscatto (all’epoca si chiamavano ancora così) di un me più giovane, più magro, con barba lunga e coda di cavallo, con la pelle bruciata dal sole di e lo sguardo
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Affaticato dopo una camminata iniziata all’alba, sorridere come un bambino sulla riva della laguna, alla base del ghiacciaio che precipita giù dalla montagna. Conservo anche una piccola bottiglia di plastica contenente l’acqua di quella laguna; acqua che era ghiaccio che era,
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Sì caro Cesare, parte integrante della montagna. Conservo infine il ricordo di una frase del povero Toni Egger. Ad un preoccupato Cesarino Fava -che vedendolo rischiare la presa su uno sperone di roccia malmesso, gli disse: “Toni! E se non regge?”- rispose:
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“E se invece regge?”.
Mi viene da pensare che è morto facendo quello che amava, tentando di rendere possibile l’impossibile, volando giù dalla parete di una montagna per atterrare anni dopo sulla vetta di un’altra.
E alla fine mi dico che forse ha avuto ragione lui.
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