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Avrei dovuto ascoltare il canto nuziale che mi regalò il conte Ferdinando Crivelli.
“Che poi che teco alquanto avrà goduto, lussureggiando andrà con Questa e Quella, e invano ti udirem gridare aiuto: ma come indietro più non si ritorna, render solo potrai corna per corna”
Lo sposai il 24 settembre 1824 nella chiesa di San Fedele a Milano. Lui, il principe Emilio Barbiano di Belgioioso, un uomo affascinante, provetto ballerino, ma anche un inguaribile libertino con il vizio di dilapidare i soldi di famiglia.
Il bello è che lo avevo sempre saputo.
La mia infatuazione per lui comunque durò poco.
In questi casi, a quei tempi, le donne generalmente si rassegnavano al tradimento. O rendevano pan per focaccia.
Io feci altro quando scoprii che mi aveva tradito con la mia amica Paola Ruga.
Me ne andai da lui e da Milano.
Il traditore aggiunse una tacca alla sua capacità di seduttore, aumentando la considerazione tra gli uomini.
Io invece venni additata come una rovina famiglie.
Conoscevo Giulia Beccaria fin da bambina. Suo figlio, nel 1841, mi impedì persino di vederla sul letto di morte.
Lui si chiamava Alessandro Manzoni, forse lo conoscete. Comunque.
Mi ero sposata a sedici anni e a venti ero di nuovo libera. Tranquilli.
Nessun problema di soldi.
Avevo portato in dote 400.000 lire austriache.
Ero nata il 28 giugno 1808 da una delle famiglie storiche dell'aristocrazia milanese. Avevo quattro anni quando mio padre, Gerolamo Trivulzio, morì.
Mia madre allora sposò Alessandro Visconti d'Aragona. Anche a lui volevo un sacco di bene.
Ma nel 1821 fu arrestato con l'accusa di aver partecipato ai moti carbonari.
Uscì distrutto come uomo dopo due anni di prigionia. Non si riprese mai più. Io avevo tredici anni. Orfana di padre per la seconda volta.
Naturalmente mia madre si risposò un’altra volta.
Insomma, non avevo avuto un’infanzia felice.
E a 20 anni ero di nuovo una donna libera, con un patrimonio tale da permettermi di fare e realizzare ogni cosa.
Non divorziai mai, restando per sempre Cristina Trivulzio di Belgiojoso
E mi realizzai, come donna soprattutto, ma anche come letterata, come educatrice, come patriota. Sì, avete capito bene. Mi ero avvicinata ai movimenti di liberazione.
Agli austriaci, che dominavano la Lombardia dal 1815, davo parecchio fastidio.
Non mi arrestarono solo perché non volevano infierire contro le élite sociali e culturali milanesi. Per fuggire mi procurai un passaporto per Genova.
Il 1° dicembre del 1828 partii per la Liguria.
E poi a Roma, dove conobbi Luigi Napoleone, nipote del Bonaparte.
E poi a Napoli. Firenze, e poi da clandestina a Nizza, per proseguire fino a Parigi.
E qui mi arrivò la notizia. Gli austriaci mi intimavano di rientrare a Milano, pena la confisca di tutti i miei beni. Scelsi la libertà, e improvvisamente mi ritrovai povera in canna. Con quella maledetta epilessia che mi tormentava. Non sapevo fare niente.
Nemmeno un orlo, nemmeno un uovo sodo. Mi guadagnai da vivere impartendo lezioni di disegno e dipingendo porcellane. E scrissi articoli sulla situazione italiana.
Scriveranno che “Nessuno fece più di lei a Parigi per la propaganda dell’idea italiana"
Nel 1835 rientrai in possesso di tutti i miei beni e aprii un “salon”per scrittori, artisti e politici. Da Bellini a Liszt, da Gioberti a Cavour, e poi De Musset e Balzac con una passione per me mai ricambiata.
Il padre di mia figlia Maria, nata nel 1838, era Francois Mignet.
Nel 1839 tornai a Locate.E sviluppai le mie teorie di sviluppo sociale.Creai un falansterio per i 2.000 contadini. All’interno un asilo, una scuola, una stanza per allattare i neonati.Una scuola professionale per uomini e donne, una scuola di canto, una mensa e medicine per tutti
Quando lui venne a sapere che a Locate avevo fatto tutto questo, e soprattutto un asilo per bambini poveri, lui esclamò: «ma se ora i figli dei contadini vanno a scuola chi coltiverà i nostri campi?»
Lui, il simpaticone, quello che mi considerava una donnaccia.
Ma se il 90% della popolazione era analfabeta, che dovevo fare. L’istruzione è l’unico modo per migliorare la vita delle persone. In quei giorni del 1848, ero momentaneamente a Napoli, quando da Milano mi arrivò la notizia che la gente era insorta. Potevo rimanere indifferente?
Noleggiai una nave per Genova. Non ci crederete. Nei giorni precedenti tutti volevano venire con me a Milano. Il 30 marzo 1848 il piroscafo lasciò Napoli con 200 uomini (tanti ne conteneva) e una donna, io. Arrivammo festanti a Milano il 6 aprile. E poi a cavallo a palazzo Marino
Mi chiesero di affacciarmi al balcone. La gioia immensa di vedere per la prima volta il tricolore sulle mura di Milano. Prima che gli austriaci rientrassero nella città, io ero già a Roma, nominata “direttrice generale delle ambulanze militari”. Curavo i feriti, insomma.
Formai una squadra di 300 donne in soccorso dei combattenti feriti.
Pio IX ci definì “donne costrette a rendere l’anima tra gli allettamenti di qualche sfacciata meretrice”.
Risposi con durezza che “Nostro Signore accettò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi”
Fui costretta a fuggire. Arrivai in Turchia, dove acquistai un terreno per farne una colonia per esuli. Per insegnare ai contadine tecniche di coltivazione. Quando intervenni in difesa di una donna, un violento mi colpì con cinque coltellate. Fortunatamente mi salvai.
E nel 1855, grazie ad una amnistia, tornai in Lombardia dividendomi tra il mio palazzo di Milano, la tenuta di Locate e la villa di Blevio sul lago di Como occupandomi di mia figlia Maria che nel frattempo aveva sposato il marchese Ludovico Trotti.
Perché non mi trovate sui libri di storia come una protagonista dell’Unità d’Italia? Sicuramente per il nome troppo lungo.
Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura Trivulzio.
Non sarà per il fatto che ero una donna,vero?
Cristina Trivulzio di Belgiojoso morì a Milano il 5 luglio del 1871, dieci anni dopo quell’unità d’Italia per cui aveva tanto lottato.
Nessun politico dell’Italia unita partecipò al suo funerale.
E' sepolta nel Cimitero del Comune di Locate di Triulzi.
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