I disagi. Leggo sui social che ci lamentiamo dei disagi. Persone che hanno già pagato le vacanze di Pasqua. Altre che salteranno il weekend in montagna. Altre ancora che si lamentano perché sono saltati i programmi.
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O perché Amazon consegna più lentamente. I disagi. Io ci ho lavorato in qualche zona del mondo dove davvero ci sono disagi. Ed ho visto, spettatore pressoché impotente, cosa vuol dire avere disagi. Io non so come finirà questa storia del coronavirus.
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Non lo so se stiamo esagerando o se stiamo sottodimensionando il problema. Credo che non abbiamo la più pallida idea della dimensione di ciò che accade, ma non è questo il punto. Non lo so se alla fine di questa storia saremo tutti qui, ancora a parlarne.
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Ma quello che so è che questi non sono disagi. Possono esserlo solo agli occhi di persone che non sanno quali siano i veri disagi. Ci rifugiamo nel telelavoro, ma non ci rendiamo conto che il vero disagio sarebbe non avere nemmeno la rete che ci consente di fare una VDC.
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Opzione non impossibile se i tecnici di centrale si ammalassero o non potessero manutenere la rete. Ci riempiamo il freezer di congelati, stolidamente inconsapevoli del fatto che in certe situazioni la corrente elettrica è tutt’altro che scontata.
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Brontoliamo - in questi giorni - per i ritardi nelle consegne postali, ma non ci rendiamo conto del valore di avere un servizio postale. Di avere siti di e-commerce che ancora funzionano. Di avere chi li fa funzionare.
I disagi. Io li ho visti i disagi.
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I disagi. Io li ho visti i disagi.
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I disagi patiti da persone che non hanno mai bevuto acqua trasparente. I disagi di chi la corrente elettrica la compra al minuto per ricaricare quel telefono cellulare (no, non uno smartphone, proprio un telefono cellulare) che rappresenta l’unico contatto con il mondo.
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I disagi di chi si chiede se utilizzare le due ore al giorno di elettricità fornita dal generatore per mantenere fredda la cella frigo o per accendere il computer ai figli e guardare il notiziario. Ci lamentiamo perché non possiamo andare al ristorante.
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E questi sarebbero i disagi. Siamo così abituati al comodo benessere della nostra società che non ci rendiamo conto di quanto i privilegi dei quali godiamo siano fragili. Di quanto il nostro status sia precario. Di quanto la nostra fortuna sia vissuta con inconsapevolezza.
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Leggo del disagio di chi si accorge che - per qualche giorno - il passaporto italiano troverà frontiere sbarrate: e penso che ci potrebbe far bene, per una volta, essere nei panni di chi viene respinto ad una frontiera.
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E penso che ci sia una bella differenza tra essere respinti ad una frontiera che si voleva varcare per un viaggio di lavoro (o per una vacanza) ed essere respinti ad una frontiera che si voleva varcare senza avere più una casa alle spalle. I disagi.
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Noi abbiamo dimenticato cosa siano davvero i disagi. La speranza è che le migliaia di profughi delle zone rosse, più o meno incoscientemente diretti verso le proprie famiglie, per una volta comprendano il terrore di chi fugge.
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Soprattutto di chi fugge verso l’ignoto e non verso casa propria. E se lo ricordino. Dovremmo iniziare a pensare che il privilegio di vivere in una società caratterizzata dall’opulenza non è un diritto di nascita, ma una situazione del tutto contingente.
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E solo così potremo iniziare a comprendere la enorme, abissale, incolmabile differenza tra quelli che pensiamo siano i disagi e ciò che i disagi sono davvero. Forse, in questo, il coronavirus ci aprirà gli occhi.
