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E' il 7 luglio 1929.
A Roma, allo Stadio Nazionale del PNF si assegna il campionato di calcio. Ultimo campionato a gironi.
Se lo contendono il Bologna e il Torino.
3-1 all’andata per il Bologna, 1-0 per il Torino al ritorno.
Niente differenza reti all’epoca.
E’ spareggio.
A me interessava poco quella partita.
Non fosse altro per i miei 10 anni.
Con i miei amichetti avevo deciso di andare all’Adda a fare il bagno.
Noi ragazzi poveri di Cassano d’Adda ci divertivamo così, malgrado fossimo a conoscenza della pericolosità del fiume.
Con noi portavamo sempre il “Ciapìn”, ferro di cavallo, un ragazzino di sei anni chiamato così perché portava fortuna. Avevamo tutti un nomignolo.
Io ero il “Tulèn”, perché prendevo a calci tutto quel che trovavo per strada, pallone di stracci o barattoli di latta.
Un tuffo e poi le urla. “Ciapìn, Ciapìn!”.
Il piccolino era entrato in acqua e non era più riemerso. Urlavano tutti, ma nessuno faceva niente. Non esitai un attimo. Qualche bracciata e la presa nell’attimo in cui Ciapìn era riemerso.
Lo afferrai e lo trascinai a terra.
A Roma la partita è combattuta.
Tra infortuni ed espulsioni le squadre sono rimaste in nove.
Poi Schiavio del Bologna scatta in contropiede sulla destra e mette in mezzo.
E’ Muzzioli a battere il portiere granata Bosia: 1-0.
E il Bologna vince il suo secondo titolo nazionale.
Sulle rive dell’Adda “Ciapìn” sta rinvenendo buttando fuori tutta l’acqua dell’Adda che ha bevuto.
Non piange, si vergogna.
Io lo guardo e sorrido, mentre tutti i miei amici mi danno pacche sulle spalle.
“Bravo, Tulèn, se un eroe, lo hai salvato.”
Ritrovai il “Ciapìn” il 22 novembre 1942 a Torino, Stadio Mussolini. Ottava giornata del Campionato Serie A.
A centrocampo due squadre. Il Torino e il Milan.
Gli strinsi la mano.
“Ciau Ciapìn!” gli dissi io, numero 10 del Torino.
“Ciau Tulèn!”, rispose lui, numero 4 del Milan
Già.
Lui il Ciapìn è Andrea Bonomi, nato a Cassano d’Adda il 14 febbraio del 1923 futuro capitano del Milano.
E io, il Tulèn?
Il numero 10 del Torino, o meglio del Grande Torino.
Valentino Mazzola nato a Cassano d’Adda il 26 gennaio del 1919.
Sono morto quel 4 maggio 1949 quando il Fiat G.212 con a bordo l'intera mia squadra si schiantò contro il muraglione posteriore della Basilica di Superga.
Il campionato alle ultime battute e lo scudetto a portata di mano dopo il pareggio con l’Inter della domenica precedente
Perché stavamo tornando da Lisbona dopo aver giocato contro il Benfica?
Una mia promessa. Al capitano del Portogallo, Francisco Ferreira, organizzata per aiutarlo essendo in difficoltà economiche. L'ultima sua partita.
Lui voleva giocare contro la squadra più forte del mondo.
Ferruccio Novo, il Presidente non voleva. Fui io a convincerlo. Se non perdiamo con L’inter (e quindi scudetto assicurato) ci lascia andare?
E così era stato.
0-0 era finita la partita e i punti di vantaggio ci garantivano ormai lo scudetto.
Stavo male, ma non potevo mancare.
E’ finita così. Tanta gente alla partita, tanti soldi per l’amico Ferreira e noi di ritorno per atterrare a Milano Malpensa e poi con il famoso celebre “Conte Rosso, il pullman della squadra, verso Torino.
Eravamo stanchissimi e qualcuno di noi chiese di atterrare a Torino.
Il seguito lo conoscete.
Il Grande Torino, la squadra più bella del mondo finì quel giorno.
Io, Loik, Menti e Grezar avevamo toccato i trent’anni, Gabetto già sui 33.
Forse, come scrisse un giornalista eravamo: “Una quadra talmente bella da non poter invecchiare”
Ricordate la prima partita tra me, il Tulèn, e il Ciapìn?
Lo incontrai in tutto otto volte.
Vincemmo 6 volte e segnai in quattro partite.
Due volte vinse il Milan.
Bonomi Ciapìn non fece nessun gol.
In fondo il suo mestiere in campo era quello di non far segnare.
Noi del Torino eravamo una squadra straordinaria.
L’11 maggio del 1947 dieci di noi scesero in campo con la Nazionale nella vittoria contro l’Ungheria del giovane Puskas. Un vero record.
Solo il portiere Lucidio Sentimenti (IV) sostituiva il nostro Valerio Bacigalupo.
Allora il calcio era fatto di uomini, di valori e amicizia.
Valerio e Lucidio erano molto amici, malgrado una rivalità inventata dai giornali.
Quanto fossero amici si scoprì tra i rottami.
Bacigalupo fu riconosciuto perché accanto c’era la fotografia di lui e del suo amico.
E poi tutti i record, i primati di quella squadra.
Oltre ai 5 scudetti consecutivi, anche 125 gol segnati in un campionato (media 3,1 gol a partita).
I tre gol segnati da me in tre minuti al Vicenza.
E l’imbattibilità interna durata anni. 100 partite con 363 gol realizzati.
Ma non era solo classe.
Eravamo uomini veri, che non mollavano mai fine alla fine. Come quel 5 ottobre 1947 sotto di una rete con la Roma a 25’ dalla fine. Io con uno stiramento.
Stringendo i denti segnai tre reti.
I miei compagni fecero il resto.
Montanelli aveva ragione quando, per rendere omaggio a quella squadra di “invincibili”, scrisse sul Corriere della Sera: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto "in trasferta".
Non sono un appassionato di calcio. Ma un giorno mio padre mi chiese di accompagnarlo a vedere la sua squadra, l'Atalanta. Era il 28/09/1968. Atalanta-Juve 3-3. Fu lui a parlarmi per la prima volta della più forte squadra di calcio italiana mai esistita. A parlarmi di quel Torino
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