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L’Italia è stata per molti anni il Paese più entusiasta sull’appartenenza alla #UE. Buona parte di questo favore derivava da una precisa aspettativa e speranza: che far parte dell’Unione avrebbe finalmente disciplinato con regole più stringenti una classe dirigente (1 —>)
(—>) irresponsabile, spendacciona, arraffona e ripiegata sulla ricerca qui ed ora del consenso invece che nella costruzione di una società equa e sviluppata. Poi però queste regole hanno iniziato a svelare una verità rimossa da molto italiani (2 —>)
(—>) e cioè che gravi tare e ritardi, una nefasta tendenza alla illegalità diffusa e al favoritismo clanico, al rifiuto di guardare al futuro con responsabilità non erano appannaggio esclusivo dei “politici”, ma di una fetta ampia della società (3 —>)
(—>) E così si è diffusa la convinzione che sia meglio fare a meno di vincoli esterni, che costringono a modernizzarci, a investire nel futuro invece che scialacquare nel presente. La reazione a qualunque tentativo di spezzare nicchie e privilegi (4 —>)
(—>) è stata virulenta, rabbiosa. Prima si è espressa nel populismo vaffanculista e antipolitoco dei cinquestelle, poi appunto verso la UE, le sue istituzioni, le sue regole, la sua inopportuna insistenza sui bilanci in ordine. Oggi siamo in piena onda di rifiuto (5 —>)
(—>) con un Paese che continua a sprofondare economicamente e civilmente ma che continua a dare con pervicacia la colpa agli altri, coltivando il sogno impossibile di una Italia al contempo ricca e ignorante, forte nel mondo ma spaghettara (6—>)
(—>) familista e conservatrice ma tecnologica e sviluppata, reazionaria e razzista ma inserita nei vantaggi del commercio internazionale, paurosa e rancorosa ma capace di attrarre investimenti e di svilupparsi. Tutto ciò è IMPOSSIBILE, e prima lo capiremo, meglio sarà.
