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Mi avevano chiesto di salire sul palco con lui quel 28 agosto 1963.
Mi rifiutai e mi accomodai in prima fila.
Da un anno preparavano quell’evento e in fondo io non avevo fatto nulla.
“I have a dream” il discorso. Sul palco lui, Martin Luther King.
Fu un colpo durissimo quando venni a sapere della sua morte. Mi ritrovai a commemorarlo davanti a centinaia di giovani. Dissi loro: “Qualcuno ha detto che tra 40 anni questo Paese potrebbe avere un Presidente nero. Credo che con questo clima, di anni ce ne vorranno 400”.
Negli anni della lotta per i diritti civili di noi afroamericani mi sono sempre impegnato ed esposto in prima persona. D’altronde ero nato in Louisiana nel 1934.
Non certo il posto ideale per un nero.
I rapporti con i bianchi scarsi.
Quasi sempre traumatici.
Odiavo le ingiustizie. Fu George Powles, allenatore bianco della McClymonds High School (una black school) ad insegnarmi a non reagire mai alle provocazioni.
Però, quando con un mio compagno di colore venimmo rifiutati da un ristorante locale, mi rifiutai di giocare una partita
Dopo l’ultima finale vinta nel 1969 ho lasciato il basket.
Mai più toccato un pallone.
O meglio. Nel 1972 mio figlio maggiore mi chiese di giocare 1 contro 1 a 21. Dovette insistere, ma giocai con lui.
Sul 19 a zero gli dissi: “Ora puoi segnare 2 punti”.
Li fece. Vinsi 21-2.
Alla fine mio figlio mi chiese: “Perché mi hai fatto segnare quei due punti”?
Risposi: ”Perché un giorno potrai raccontare ai tuoi amici di aver segnato due punti al giocatore più vincente nella storia del basket americano.
Quel giocatore ero io, suo padre, Bill Russell.
Già. Vorrei essere ricordato soprattutto per le mie battaglie per i diritti civili.
Nessuno però dimentica quello che ho fatto nel basket americano.
Come dar loro torto. Ho vinto undici titoli in 13 anni (record ancora oggi).
Tutti con la maglia dei Boston Celtics.
Non è mai stato facile giocare a basket per me. Un nero.
Fin dal college. Quando giocavamo nel sud, l’ingresso di noi neri veniva accompagnato da fischi e lancio di oggetti.
Io li ricambiai con 55 vittorie consecutive.
Non andò meglio a Boston. Dove iniziai la mia leggendaria carriera NBA.
Fu persino difficile trovare casa in quei quartieri abitati dai bianchi.
E con i tifosi non andò meglio.
Faticavamo a riempire l’arena nelle partite casalinghe
Rimproveravano alla società di avere in squadra troppi giocatori afroamericani.
Anche se grandi giocatori, come Tom Sanders e K.C. Jones. Oltre al sottoscritto naturalmente.
Per questo definii Boston la città più segregazionista d’America
Nel 1964 condussi allenamenti di pallacanestro aperti a bianchi e neri nelle palestre di quattro città del Mississippi. Primo atleta afroamericano a impegnarsi in prima persona nel Sud oltre che membro di una associazione che supportava i giovani imprenditori afroamericani.
Nel 2009 hanno deciso di cambiare col mio nome il premio per il miglior giocatore delle finali. Che non avevo mai vinto. Perché nato, il premio, nel 1969. Il mio ultimo anno.
A chi lo diedero quell’ultimo anno? Per la prima e unica volta ad uno dei perdenti. Bianco, naturalmente
Dopo la morte Martin Luther King, avevo detto che per avere un Presidente nero, con quel clima, ci sarebbero voluti 400 anni.
Mi sbagliavo.
Il 15 febbraio 2011 ho ricevuto da Obama la più alta onorificenza civile statunitense, la Medaglia presidenziale della libertà
Posso dire di avere vinto nel basket e nella vita.
E’ stata dura, ma per quanto riguarda i diritti di noi afroamericani abbiamo fatto passi da gigante. Dopo aver lottato duramente.Quanti anni ci sono voluti? Moltissimi. Quanto per perdere tutto? Attenti. A volte basta pochissimo
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