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Prima o poi doveva arrivare questo giorno. E’ stato un percorso lungo, ma ho preso la mia decisione. E mentre aspetto che mi chiamino, seduto nello spogliatoio, la mente corre a quando tutto è iniziato. A quel “soldo di cacio” che crebbe mangiando gnocchi, lasagne e salsicce”.
Mio padre Joe lo chiamavano Jellybean, caramella alla frutta, o gelatina.
Sempre sorridente, scherzava di continuo, in campo e fuori. Con un unico scopo: trasmettere la sua allegria a chi gli stava intorno.
“Alcune volte clown, altre volte giocatore di basket” scrivevano di lui
Per questo lasciò gli Stati Uniti per approdare in Italia. Precisamente a Rieti, nella Sebastiani. Abitavamo in Via Pierluigi Mariani 33. Ed è lì che ho cominciato a tirare la palla nel canestro montato su un muro esterno della villetta.
E poi gli inizi nel minibasket.
Fu nel 1985 che mi fecero giocare il Torneo Plasmon riservato ai nati nel 1975. Fecero un’eccezione, tanto io ero “il piccolino”.
Pronti via 10-0. E tutti a piangere. Tutti, avversari e compagni. «Cacciatelo via, ha stufato, fate giocare tutti! Così non si diverte nessuno!».
Già, perché io la palla non la passavo mai. Palla, tiro, canestro. Palla, tiro, canestro. Mi sostituirono e io invece di andare a sedermi in panchina corsi da mamma Pamela sugli spalti a piangere. Ero furioso.
Sei anni e avevo già un bel caratterino.
Dan Gay veniva spesso a trovarmi. Giocava nella stessa squadra di papà, e io andavo spesso in palestra a vedere i suoi allenamenti. E lo sfidavo. Era alto 207 cm e pesava 109 kg. Ora lo posso dire. E’ stato l’unico giocatore al mondo ad avermi sempre schiacciato in testa.
Diciamo però che avevo attenuante, visto che all'epoca avevo solo sei anni.
Sono nato infatti il 23 agosto del 1978.

Invece oggi è il 16 aprile del 2016. E tra poco lascerò questo sport che mi ha dato tutto e che tanto ho amato.
A 37 anni, dopo 1346 gare disputate.
Ho nostalgia dell’Italia. Un Paese che mi ha accolto con tanto amore. Dan lo diceva sempre. Vivere con tanti bianchi senza tutte quelle risse per problemi razziali come negli Stati Uniti era qualcosa di bello, di diverso.
In Italia certi valori avevano un senso profondo.
E poi il mangiare. A mamma Pamela non piaceva cucinare e per quello aveva scoperto quella rosticceria. Gnocchi, pollo al forno, lasagne, patate, pizza, patatine, salsicce per la gioia mia e delle mie sorelline.
Avevo 8 anni quando papà Joe andò a giocare a Reggio Calabria.
Noi ragazzini giocavamo nella palestra del liceo scientifico Leonardo da Vinci.
Eravamo molto amici. Andavamo tutti d’accordo. Almeno fino all’inizio delle partite. Da quel momento in poi la volevo tutta per me.
La palla, intendo.
Ero bravo, ma con quel “piccolo” difetto. Una volta presa la palla, i miei compagni se la potevano scordare. Al limite potevano difendere, quello sì, visto che a me non piaceva quel fondamentale. Papà Joe lo considerava addirittura una perdita di tempo.
Poi il trasferimento di papà a Pistoia. E poi a Reggio Emilia.
E fu allora che capii che quella sarebbe stata la mia vita. Il mio traguardo? Giocare nella NBA. Anche se gli Stati Uniti erano lontani, un giorno ci sarei andato.
Per diventare una stella
Ma lasciare l’Italia mi costò molto.
Mi sentivo italiano, cresciuto a lasagne e cappelletti e il Milan nel cuore. E poi gli amici, i compagni di squadra, quelli di scuola, e la mia amica Giorgia. Direi, più che un'amica.
Una breve parentesi in Francia e poi Philadelphia.
Non parlavo bene l’inglese, mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ma quello che accadde dopo ormai lo conoscete. Prima alla Lower Merion High School, con record di punti, poi direttamente ai professionisti nei Los Angeles Lakers senza passare dall’Università
Avevo 18 anni e 72 giorni il giorno del mio esordio. Un record. Vent’anni giocati ad alto livello con cinque titoli Nba e due medaglie d’oro olimpiche passando tra infortuni che avrebbero steso chiunque. Fu un giorno fantastico quando superai nei punti il mio idolo Michael Jordan
Era il 14 dicembre 2014 quando misi a segno il punto numero 32.293. Terzo marcatore di sempre. Ma la mia felicità non era dovuta a quel numero di punti, ma al fatto che in tribuna c’era la mia famiglia, mia moglie Vanessa e le nostre bambine.
Devo molto all’Italia. Non sarei mai stato quello che sono senza quegli anni trascorsi da voi. Fin dal primo giorno, quando qualcuno chiese come mi chiamassi. Non conoscevo l’italiano e risposi: «My name is Kobe, Kobe Bryant». Oggi lo posso dire. «Il mio nome è Kobe, Kobe Bryant»
Ora devo andare. Sento già la gente che urla a gran voce il mio nome. Oggi, 16 aprile 2016, giocherò l’ultima partita e poi lascerò il basket.Perché “Cara pallacanestro..il mio cuore può reggere il peso, anche la mia mente, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci”
Il 16 aprile 2016 Kobe Bryant giocò la sua ultima partita contro gli Utah Jazz segnando 60 punti. Dopo 20 anni giocati sempre nella stessa squadra, i Los Angeles Lakers.
I Lakers hanno ritirato le maglie con i numeri 8 e 24. I numeri indossati da Kobe Bryant.
La lettera con cui Kobe Bryant ha annunciato il suo ritiro ha ispirato un cortometraggio di Glen Kean, Oscar nel 2018 «Dear basketball». E’ indirizzata alla pallacanestro. Una lettera d’amore che vale per tutti gli sport.
Perché “Lo sport è vita”.
bit.ly/3aShibV
Riposa in pace Kobe. O Black Mamba, come ti piaceva essere chiamato. Riposa in pace con la tua piccola “Gigi”.
Un pensiero alle altre vittime. John Altobelli, sua moglie Keri e la figlia Alyssa; Christina Mauser, Sarah Chester e sua figlia Payton e al pilota Ara Zobayan.
Se volete saperne di più sugli anni trascorsi in Italia da Joe Bryant e dal piccolo Kobe, vi consiglio il libro “Un italiano di nome Kobe” di Andrea Barocci.
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