«Ma dove volete andare a scuola che siete quasi scalzi? Non vedete che c'è la neve?».
Ma noi a scuola volevamo andare lo stesso perché distribuivano il cacao. Avevo sette o otto anni. E a scuola me lo diedero il cacao, una bella tazza fumante.
Eravamo poveri e io fui costretta a lavorare di notte. Rammendare mi mangiava gli occhi
Una donna mi chiese in sloveno: «A che prezzo vendi i garofani?»
«A venti centesimi» risposi in sloveno.
A quel punto i fascisti mi aggredirono rovesciandomi la bancarella.
Quando i fascisti se ne furono andati le persone si avvicinarono alla bancarella. Ad ogni fiore raccolto mi lasciavano dei soldi sul banco.
La gente era buona, non sopportava quelle ingiustizie.
Niente scarpe. Niente di niente.
«Perché devo stare zitta? Perché? Non posso dire neanche una parola nella mia lingua?» Non ce la facevo più. Per quello mi ero unita a mio fratello partigiano. Non avevo paura.
Ma sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe bussato alla mia porta.
E odiavamo anche i tedeschi. Ero coraggiosa. Quando arrestarono mio fratello andai direttamente dal maggiore delle SS Josef Ketner a chiedere sue notizie.
Rischiando.
Per arrestarmi.
Dopo avermi portato al ricreatorio di Prosecco, mi trasferirono al Coroneo, il carcere di Trieste. Dimenticavo. I tedeschi in casa mi avevano rubato il corredo da sposa.
Ma una sera me lo strapparono via. Quella sera sono morta dentro. Con lui.
Senza il mio bambino valeva la pena di continuare a lottare?
Una volta arrivata a casa Savina subì un altro trauma.
Il suo fidanzato si rifiutò di sposarla.
Savina, una delle tante madri deportate.
Per non dimenticare.
Mai.