My Authors
Read all threads
Ho saputo che nei giorni scorsi qualcuno ha scritto “Juden hier” sulla porta del figlio di Lidia Beccaria. A Lidia, che non era neppure ebrea e che fu imprigionata a Ravensbrück per motivi politici.
Già, Ravensbrück. Ci sono stata anch’io in quel lager.
E per gli stessi motivi.
I campi di sterminio li chiamavano Vernichtungslager, lager dove il tutto si trasformava in nulla. Di «nullificazione».
Come ci sono finita? Una lunga storia. E piuttosto dolorosa. Da far leggere a quello che ha scritto quella frase sulla porta.
Anche se non servirebbe a niente
Aveva nevicato quel giorno.
«Ma dove volete andare a scuola che siete quasi scalzi? Non vedete che c'è la neve?».
Ma noi a scuola volevamo andare lo stesso perché distribuivano il cacao. Avevo sette o otto anni. E a scuola me lo diedero il cacao, una bella tazza fumante.
Ma quando ebbi in mano quella bellissima e caldissima tazza fumante, e stavo per bere, arrivò il bidello, che era un fascista (assumevano solo loro a quei tempi) e disse: «Il cacao e il pane non sono per te!» e mi portò tutto via.
Avevo 15 anni quando mamma Vittoria si ammalò di tubercolosi. Lei aveva 45 anni quando mi disse sul letto di morte: «Savina, ti lascio i tuoi fratelli, ti lascio tutto».
Eravamo poveri e io fui costretta a lavorare di notte. Rammendare mi mangiava gli occhi
Mio padre con la campagna guadagnava poco, e allora dopo la morte della mamma rilevai il suo lavoro da fioraia. Molte donne slovene scendevano a Trieste a vendere fiori. Ricordo che il primo marzo del 1943 era una giornata bellissima.
Erano circa le 11 e i fascisti stavano passando per la piazza dove vendevo i miei fiori.
Una donna mi chiese in sloveno: «A che prezzo vendi i garofani?»
«A venti centesimi» risposi in sloveno.
A quel punto i fascisti mi aggredirono rovesciandomi la bancarella.
Un uomo ebbe l’ardire di dire: «ma non vi vergognate?» Lo portarono via.
Quando i fascisti se ne furono andati le persone si avvicinarono alla bancarella. Ad ogni fiore raccolto mi lasciavano dei soldi sul banco.
La gente era buona, non sopportava quelle ingiustizie.
In chiesa non andavo mai. Non avevo, come tutti in famiglia, un vestito decente. A quelli poveri come noi, e numerosi, davano almeno un paio di scarpe. Ma noi eravamo la minoranza slovena a Prosecco.
Niente scarpe. Niente di niente.
Tutti mi dicevano di stare zitta.
«Perché devo stare zitta? Perché? Non posso dire neanche una parola nella mia lingua?» Non ce la facevo più. Per quello mi ero unita a mio fratello partigiano. Non avevo paura.
Ma sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe bussato alla mia porta.
Odiavamo i fascisti. Quelli ci avevano italianizzato persino il cognome. Eravamo Rupel. Diventammo Rupelli.
E odiavamo anche i tedeschi. Ero coraggiosa. Quando arrestarono mio fratello andai direttamente dal maggiore delle SS Josef Ketner a chiedere sue notizie.
Rischiando.
Come avevo previsto alla fine di novembre del '44 qualcuno bussò alla mia porta.
Per arrestarmi.
Dopo avermi portato al ricreatorio di Prosecco, mi trasferirono al Coroneo, il carcere di Trieste. Dimenticavo. I tedeschi in casa mi avevano rubato il corredo da sposa.
La data era già decisa. Il 6 dicembre avrei dovuto sposare il mio amore. Portavo in grembo nostro figlio di cinque mesi. Il 6 dicembre rimase comunque una data particolare. Fu il giorno esatto in cui arrivai al lager di Ravensbrück. All’ingresso due donne penzolavano dalla forca.
Il lager? «Cielo e terra, cielo e terra neri, non si vedeva altro». E il numero 91.329, il mio, da cucire sul cappotto con un triangolo rosso simbolo delle deportate politiche.
In mezzo al triangolo la I di italiane.
Mangiavo pochissimo. Ci davano una pagnotta da dividere in sei. A volte in dieci e persino in dodici. Pesavo quaranta chili quando mi trasferirono nel blocco 32, quello delle donne incinte. Magrissima, col ventre piccolo, anche se ero ormai all’ottavo mese.
I camini fumavano incessantemente, quando misi al mondo Danilo, il mio bambino.
Non mi diedero nemmeno un panno per avvolgerlo. Faceva molto freddo. Non avevo latte, nemmeno acqua nel seno, non avevo niente da dargli da mangiare.
Povero fagottino mio.
All’inizio piangeva, poi il lamento divenne sempre più debole. Io cercavo di scaldarlo, ma non avevo niente da dargli da mangiare. Danilo morì che aveva 14 giorni. C’erano tante partorienti nella mia baracca. Il bimbo che sopravvisse più a lungo fu quello di una russa. Sei mesi.
Lo tenni con me due giorni ancora. Nascosto. Avvolto in due stracci, in inverno, all'estremo nord della Germania.
Ma una sera me lo strapparono via. Quella sera sono morta dentro. Con lui.
Senza il mio bambino valeva la pena di continuare a lottare?
«Con questi dolori che ho, come sopravviverò? Sono all'ultimo stadio, è meglio che mi lasci andare, che mi abbandoni. Fin che ho vita ho la speranza di tornare a casa. Forse tornerà anche mio fratello e a casa c'è ancora qualcuno ad aspettarmi. Ma sì, devo tentare, devo lottare!»
Ogni giorno c’era l’appello. Ore e ore in piedi, all’aperto, con pochi stracci addosso e con i piedi nell’acqua delle pozzanghere. Ed era inverno. Avevano il coraggio di fare l’appello anche ai bambini, con quel numero di matricola sulle manine.
L’appello e poi la selezione.
Quindici. Ho superato quindici selezioni. Ne mendavano una di qua e una di là mentre ci controllavano la vista.
Chi veniva selezionata veniva inviata direttamente al «Blocco 23» per essere eliminata.
Io volevo vivere. Dovevo vivere.
E ci riuscii.
Savina Rupel fu liberata il 3 maggio 1945 a Lipsia dall'Armata Rossa, durante la marcia della morte partita da Ravensbrück.
Una volta arrivata a casa Savina subì un altro trauma.
Il suo fidanzato si rifiutò di sposarla.
Questa è solo un piccolissima parte della vita di Savina nel lager. Quei giorni li ha raccontati a Marco Coslovich che li ha raccolti nel libro “Storia di Savina”.
Savina Rupel troverà la forza e il coraggio di tornare in visita al campo di Ravensbrück solo il 29 giugno del 1998
Fu il comandante del campo Suhren a concedere alle donne che partorivano la baracca 32.
“Sterminare i prigionieri facendoli lavorare duramente il più possibile e nutrendoli il meno possibile”.
Per questo non dava razioni supplementari.
I bambini morirono rapidamente.
Grazie a @FranzLivi per avermi inviato alcune testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento tedeschi tra cui questa di Savina Rupel.
Savina, una delle tante madri deportate.
Per non dimenticare.
Mai.
Missing some Tweet in this thread? You can try to force a refresh.

Enjoying this thread?

Keep Current with Johannes Bückler

Profile picture

Stay in touch and get notified when new unrolls are available from this author!

Read all threads

This Thread may be Removed Anytime!

Twitter may remove this content at anytime, convert it as a PDF, save and print for later use!

Try unrolling a thread yourself!

how to unroll video

1) Follow Thread Reader App on Twitter so you can easily mention us!

2) Go to a Twitter thread (series of Tweets by the same owner) and mention us with a keyword "unroll" @threadreaderapp unroll

You can practice here first or read more on our help page!

Follow Us on Twitter!

Did Thread Reader help you today?

Support us! We are indie developers!


This site is made by just three indie developers on a laptop doing marketing, support and development! Read more about the story.

Become a Premium Member ($3.00/month or $30.00/year) and get exclusive features!

Become Premium

Too expensive? Make a small donation by buying us coffee ($5) or help with server cost ($10)

Donate via Paypal Become our Patreon

Thank you for your support!