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Mi chiamo Jack Johnson e sono nato a Galveston in Texas il 31 marzo 1878, figlio di ex schiavi.
A 12 anni ho lasciato la scuola per lavorare, diventando poi un fenomeno da baraccone.
I bianchi si divertivano nel vedere noi afroamericani battersi a mani nude, all’ultimo sangue
A 19 anni ero alto un metro e ottanta e pesavo 80 chili.Amavo il pugilato, ma potevo combattere solo con afroamericani secondo le leggi Jim Crow. Neri da una parte e i bianchi dall’altra. Nelle scuole, sui mezzi di trasporto, nei bagni, nei ristoranti, ecc.
Ecco, quella roba lì
La mia carriera cambiò quando incontrai Joe Choynski, “il Terrore della California”.
Peccato che boxare era fuorilegge nel Texas.
E così finimmo entrambi in galera.
Joe vide in me un grande pugile e decise di allenarmi.
Con lui smisi di essere un pugile confuso e arruffone.
Se a 19 anni ero già professionista, sei anni più tardi, nel 1903, ero campione del mondo dei pesi massimi di colore. Ma io volevo di più.E l’occasione mi si presentò il 26 Dicembre 1908. Il campione del mondo in carica era il franco-canadese Tommy Burns, vero nome di Noah Brusso
Gli lanciai la mia sfida.
Lui non era obbligato a combattere contro un nero.
Invece Tommy Burns fu il primo pugile ad accettare di mettere in palio la propria corona, in un incontro, con un pugile nero.
Con me, Jack Johnson.
Il match si disputò a Sidney ed entrò nella storia.
Vinsi in 14 riprese diventando così il primo campione afroamericano dei pesi massimi.
Una vittoria che mi costò molto, perché da quel giorno divenni un personaggio scomodo, simbolo della lotta per i diritti degli afroamericani.
Quando in America arrivò la notizia che avevo stravinto, l’unica parola che scrissero i giornali fu: “inaccettabile”.
A San Francisco fu anche peggio. “La vittoria del negro è peggio del terremoto di due anni fa!"
Un nero non poteva essere il campione del mondo dei massimi.
“Bisogna togliere il sorriso dalla faccia di quel negro. L’uomo bianco deve essere salvato”. Ma io continuavo a vincere. Alla faccia loro.
E, cosa insopportabile per loro, mi comprai una bella casa, delle belle macchine, pellicce e grossi cappelli a cilindro.
“Adesso bisogna farla finita”. E convinsero James J. Jeffries, ritiratosi 5 anni prima, a sfidarmi. Era il 4 luglio 1910 in Nevada. Più che un match, uno scontro fra razze. “Sto affrontando questo incontro con il solo proposito di provare che un uomo bianco è meglio di un negro”
L’ora del riscatto per un America bianca, umiliata “da quell’imbecille di negro”.
Il match del secolo. Tra un bianco e un “procione” (ci chiamavano così i bianchi).
Come andò a finire? Che al terzo round Jeffries già sanguinava.
Ma tirai il match per le lunghe.
Volevo che il mondo vedesse. E non mi fermai nemmeno quando uno spettatore estrasse la pistola e mi sparò (il colpo fu deviato).
Quando decisi di concludere l’incontro spedii il grande Jeffries fuori dal ring.
E all’arbitro non rimase altro che proclamare la mia vittoria.
Cercarono ogni mezzo per sbattermi in galera. E ci riuscirono con la Legge Mann del 1910, che impediva a un uomo di colore di portare una donna bianca fuori dai confini di Stato.
Lei si chiamava Lucille Cameron e le trovarono un biglietto ferroviario in tasca. E tanto bastò
Mi accusarono di aver commesso "un crimine contro natura". Figuriamoci.
Fuggii a Cuba con lei. Un esilio volontario.
Fu l’inizio della mia fine.
A l’Havana, il 15 aprile 1915, persi il titolo di campione dei pesi massimi contro Jesse Willard.
Non abbandonai mai la boxe. Continuai a combattere fino al 10 giugno 1946, quando in un ristorante del North Carolina. mi rifiutarono la cena perché ero nero.
Me ne andai arrabbiato a bordo di una delle mie auto.
Non vidi la curva alla fine della strada. Veramente, Non la vidi
Sono stato perseguitato dai bianchi per tutta la vita.
Almeno fino ad oggi, 23 maggio 2018.
Perché oggi il Presidente americano mi ha perdonato. Mi è stata offerta la grazia (postuma) perché sono stato ingiustamente incarcerato e in seguito condannato all’esilio.
Che tenero.
Però non ho capito cosa ci facevano i miei discendenti alla Casa Bianca.
Dai. Siamo seri.
Sentire proprio lui, il Presidente Donald Trump, definire la mia riabilitazione “un gesto simbolico contro il pregiudizio razziale” a voi non sembra una barzelletta?
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