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Giorni fa Johannes vi ha raccontato la storia di Jack Johnson. Ecco, dopo di lui , il più importante e geniale pugile nero, fu Joe, che incontrai due volte durante la mia carriera.
Eravamo diversi. Accidenti se eravamo diversi.
Io bianco, lui nero.
Lui era Joe Louis, nato in Alabama e cresciuto a Detroit. All'epoca del primo match, nel 1936, lui era "invincibile".
Veniva infatti, come professionista, da un record di 23 vittorie e 0 sconfitte.
Ero l'ultimo suo ostacolo sulla strada per il titolo di campione del mondo.
Quello bianco ero io, Max Schmeling, nato in Germania.
Nel 1930 ero diventato il primo campione mondiale dei massimi a vincere il titolo per squalifica contro Jack Sharkey.
Quel matto di Jack mia aveva atterrato con un colpo basso sotto la cintura.
Nel 1932 gli avevo dato la rivincita e quella volta lui mi avevo battuto.
Tra alti e bassi arrivammo al 1936.
Il titolo di campione del mondo dei massimi era detenuto da James Braddock. Prima di combattere per il titolo, Joe Louis scelse di combattere contro me.
Furono tanti i motivi. Per prima cosa ero più popolare del campione del mondo.
Più vecchio (avevo già 30 anni) quindi un match facile.
E poi eravamo nel 1936.
Lui americano. Io tedesco. Hitler al potere.
E il mio manager, Joe Jacobs, ebreo.
C’erano tutti gli ingredienti.
Il match, da cui sarebbe uscito lo sfidante al titolo, si svolse il 19 giugno 1936 in uno Yankee Stadium esaurito.
L’esito pareva scontato.
Joe Louis, "l'invincibile", “il bombardiere” dato come sicuro vincitore.
I bookmakers mi davano 10 a 1.
Come andò a finire?
Diciamo la verità. Joe Louis mi sottovalutò.
Passò la maggior parte del tempo a giocare al suo sport preferito: il golf.
Io invece, oltre ad allenarmi, studiai tutti i suoi combattimenti.
E scoprii il suo punto debole.
Abbassava sempre la mano sinistra dopo un colpo.
Fu così che al suono del gong partii subito alla carica.
E nei primi sei round lo misi al tappeto due volte.
Joe Louis resistette fino alla dodicesima ripresa, quando lo mandai definitivamente nel mondo dei sogni.
Sbagliai a pronunciare quel «Heil Hitler» alla fine, lo ammetto
Il gesto piacque invece ai nazisti.
Venni accolto in Germania come l’incarnazione vivente della superiorità della razza ariana.
Razza ariana io.
Che avevo i capelli scuri, folte sopracciglia nere e carnagione olivastra.
Declinai l’offerta di iscrivermi al Partito Nazista.
Avevo battuto Joe Louis quindi toccava a me sfidare il campione del mondo dei massimi James Braddock.
Non mi fu concesso.
Sconfiggendo Joe Louis avevo scompaginato i piani di tutti gli impresari, che decisero di dare a lui e non a me quella possibilità.
E fu così che il 22 giugno 1937, a Chicago, Joe Louis strappò il titolo a Jim Braddock.
Dopo Jack Johnson la corona dei massimi tornava a un nero.

Ma Joe Louis non era contento. Quell’unica sconfitta con me gli bruciava. Voleva la rivincita. E l'ottenne.
Il 22 giugno 1938.
Non fu un incontro.
Troppe implicazioni politiche svuotarono quel match. I nazisti con la loro campagna razzista contro il nero, gli americani che mi dipinsero come un selvaggio. E il match? Durò 2 minuti. Il tempo per Joe Louis di mandarmi all’ospedale con le costole fratturate
Se state pensando che per me fu una tragedia vi sbagliate.
Tra me, il tedesco Max Schmeling e Joe Louis nacque una profonda amicizia. Fu lui ad aiutarmi quando caddi in miseria.
Finita la guerra mi procurò una concessione per l’imbottigliamento della Coca Cola in Germania.
Poi toccò a me aiutarlo.
Quando negli anni Settanta assistetti fino alla morte il vecchio Joe, malato e senza un soldo. Morì il 12 aprile 1981.
Eravamo diversi. Io bianco lui nero. Io tedesco, lui americano.
Nemici per i nostri governi.
Ci avevano detto che sul ring si affrontavano due visioni del mondo.
Ci avevano detto che dovevamo essere nemici.
Diventammo invece amici per la pelle.
Anche se avevamo pelle di colore diverso.
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