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#MdT 22/05/1996 - Cosa ci faccio in un’aula di tribunale?
Perché non è mai troppo tardi per avere giustizia.
Mi chiamo Giulia. E questa è la mia storia.
Sono nata a Testaccio e nello stesso rione mio padre aveva un negozio di biancheria. Lui non aveva studiato, ma nessuno riusciva a far di conto come lui. Per mio madre era un autentico sognatore.
Da piccola ho conosciuto la miseria. Via via che crescevo le cose però migliorarono. Lo capii il giorno in cui i miei genitori rincasarono tardi dopo essere stati al ristorante.
Parlavano del cinematografo e di quei cinegiornali dell’Istituto Luce.
Nel quartiere ci si voleva bene. Eravamo uniti. Noi ebrei con i cattolici intendo. Almeno fino a quel maledetto giorno del 1938 quando il Re pose la firma (essenziale) sulle leggi razziali.
Salvo poi dispiacersi perché aveva perso il suo barbiere preferito.
Perchè era ebreo.
E la mia vita cambiò. Completamente. Se qualcuno vi dovesse raccontare che in fondo “le leggi razziali non sono mai state sostanzialmente applicate” non credetegli.
Fu un dramma per migliaia di famiglie.
Cosa ricordo di quei giorni? Le lacrime di mia madre quando venni allontanata da scuola. Avevo 11 anni ed ero brava a scuola. La mia mamma venne in classe piangendo, raccolse i miei libri, mi prese la mano e mi portò a casa.
In quegli anni mio padre fu inviato al confino perché aveva tentato di convincere un ufficiale a rilasciare una licenza per il commercio a suo cognato. Vietato, in quanto ebreo. Ritornò a casa dopo un anno e mezzo.
E poi ci fu la retata del 16 ottobre 1943.
Quando, per la follia delle leggi razziali, persi 26 persone della mia famiglia. Quasi tutti quelli da parte di mamma.
Portarono via due mie zie e quattro cuginetti, tutti sotto i sette anni. Destinazione Auschwitz, sola andata.
Poi ancora ad Auschwitz la nonna e altri dodici fra zii e cugini, il più piccolo di soli diciotto giorni.
Anche loro senza ritorno.
Possibile che lassù non sia vietato accettare angeli così piccoli?

Nella primavera del ’44 portarono via altri parenti di mamma.
Poi alle Fosse Ardeatine il nonno, tre zii e tre cugini.
Uno compiva 17 anni quel giorno. In totale 26 cari.
Alle Fosse Ardeatine li portarono via legati. In marcia. Quando ordinarono il «Fianco dest!», nonno Mosè si confuse e si voltò a sinistra, sbagliando il fianco. Presero a schiaffi quel suo bel viso che odorava di borotalco quando da bambina lo baciavo.
Non posso raccontarvi tutto quel periodo, nel caso è tutto scritto nel libro.

Anche quello che accadde nel 1994. Quando partii per l’Argentina.
Lui era là, a Bariloche, un paradiso chiamato la "piccola Svizzera”.
Tranquillo, come se niente fosse.
Estradarlo non era possibile. Il ministro aveva scritto per “crimini di guerra” nella domanda e non “contro l’umanità” e il governo argentino aveva respinto la richiesta.
L’omicidio andava in prescrizione dopo 15 anni e i termini ormai erano scaduti.
E ora io ero lì, in Argentina. E accadde l’incredibile. Dopo aver portato la mia testimonianza ovunque, il popolo argentino costrinse il governo a rivedere la sua posizione.
E dopo la mia partenza le autorità argentine si riunirono per decidere in merito.
“Non è stato raggiunto il numero di voti sufficiente, mi dispiace tanto” mi telefonò un giornalista. Sembrava tutto perduto, ma in Argentina la gente si ribellò costringendo il governo a dire finalmente sì all’estradizione.
Era la fine del 1995.
Fu così che Erich Priebke dovette lasciare la "piccola Svizzera" e venire in Italia per affrontare un giudizio a cui era sfuggito per più di cinquant’anni.
Era lui, uno degli uomini che avevano sterminato la mia famiglia.
E’ per questo che oggi, 22 maggio del 1996, sono in tribunale.
Per testimoniare contro l’uomo che ha mandato a morire 26 persone della mia famiglia.
26 persone tra cui 11 bambini.

“Aveva obbedito solo agli ordini” fu la tesi dell’accusa.
Già. Chi obbedisce a un ordine non può essere definito un criminale. Peccato, come uscì al processo, che nessun militare tedesco sia mai stato condannato a morte per essersi rifiutato di uccidere persone inermi.
Al massimo venivano degradati.
“Li fecero scendere nella gallerie a gruppi di cinque. Fecero inginocchiare la prima fila di cinque e spararono loro in testa. Quando i primi cinque caddero a terra fecero avanzare la fila successiva costringendoli a mettersi in ginocchio sui loro corpi”.
#MdT 10/12/2018 – Rubate 20 pietre d’inciampo e pietre, posizionate sul selciato il 9 gennaio 2012 dall'artista tedesco Gunter Demnig, erano state richieste da Giulia Spizzichino, sopravvissuta alla Shoah.
“Per non dimenticare, perché la memoria è l’unica speranza per non rivivere certi orrori”.
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